Dovette ritrasformarsi in ragno per poter risalire sulla poltrona, dove assunse di nuovo le sembianze umane... ma quand'ebbe finito, si ritrovò in preda a una fame micidiale, con lo stomaco che protestava e la bocca che sbavava. Non era solo la metamorfosi a consumarlo; sospettava infatti che, poiché la sua vera forma era quella del ragno, quando si trovava in quella condizione il suo metabolismo subiva un'accelerazione pressante. Cambiavano anche i suoi pensieri in una maniera che lo affascinava non poco, perché i suoi pensieri umani erano conditi dalle emozioni (sulle quali sembrava non avere controllo, anche se forse in futuro lo avrebbe sviluppato), perlopiù sgradevoli. Da ragno, i suoi pensieri non erano affatto pensieri, almeno non secondo un punto di vista umano; erano cose scure e ringhianti che salivano da un liquido livello inferiore. Erano pensieri di
(MANGIARE)
e
(CACCIARE)
e
(STUPRARE)
e
(UCCIDERE!)
I molti modi gustosi per fare tutte queste cose attraversavano la rudimentale coscienza del dan-tete come enormi veicoli con i fari accesi lanciati senza controllo nella più buia notte di questo mondo. Pensare in quel modo - staccarsi dalla sua metà umana - gli procurava un piacere immenso, ma pensava che se ci si fosse provato ora, quand'era praticamente privo di difese, ne sarebbe rimasto ucciso.
E già aveva corso un bel rischio, in quel senso. Sollevò il braccio destro - roseo e liscio e perfettamente nudo - per guardarsi il fianco. Era lì che la troia color cioccolato gli aveva sparato e, sebbene da allora fosse considerevolmente cresciuto, raddoppiando in statura e peso, la ferita era ancora aperta e trasudava sangue mescolato a una sostanza densa come crema pasticciera, color giallo scuro e puzzolente. Pensava che quella ferita nel suo corpo umano non si sarebbe mai rimarginata. Come del resto il suo altro corpo non sarebbe mai stato capace di riprodurre la zampa che la troia gli aveva staccato sparandogli. E se non fosse inciampato - ka: aye, ne era certo - ci avrebbe rimesso la testa invece della zampa e allora buonanotte al secchio, perché...
Ci fu un ronzio secco e crepitante. Guardò il monitor che trasmetteva l'immagine dell'altro lato dell'ingresso principale e vide il robot domestico con un sacco in mano. Il sacco si contorceva e il bambino bruno seduto davanti ai monitor nel suo pannolino di fortuna, cominciò immediatamente a sbavare. Pigiò una serie di tasti con la tenera manina. La porta convessa si aprì e Nigel entrò nel vestibolo, che era costruito come una camera stagna. Mordred passò velocemente alla tastiera con cui si apriva la porta interna in risposta alla sequenza 2-5-4-1-3-1-2-1, ma il controllo che aveva sui propri movimenti era ancora quasi nullo, cosicché ottenne solo un altro stridulo ronzio e quell'irritante voce femminile (lo mandava in bestia perché gli ricordava la voce della troia color cioccolato) che disse: «HAI INSERITO IL CODICE DI SICUREZZA SBAGLIATO PER QUESTA PORTA. PUOI PROVARE UN'ALTRA VOLTA ENTRO I PROSSIMI DIECI SECONDI. DIECI... NOVE...»
Mordred l'avrebbe mandata a fare in culo, se fosse stato capace di parlare. Riuscì solo a produrre un farfugliare da neonato che senza dubbio avrebbe inorgoglito profondamente Mia. Lasciò perdere i tasti. Il desiderio di quello che il robot aveva nel sacco era troppo forte. Questa volta i topi (presumeva che fossero topi) erano vivi. Sì, vivi, per Dio, con il sangue che correva ancora nelle loro vene.
Mordred chiuse gli occhi e si concentrò. Sotto la sua pelle chiara, dalla testa fino al tallone destro con la sua voglia, fluì nuovamente la luce rossa che Susannah aveva visto apparire in occasione della sua prima trasformazione. Quando quella luce passò dalla ferita aperta che aveva sul fianco, il lento deflusso di sangue e sostanza purulenta s'intensificò per un istante e Mordred si lasciò sfuggire un gemito. Si portò la mano alla ferita e si spalmò il sangue sul piccolo addome in un distratto gesto di autoconforto. Per un momento il flusso rosso fu sostituito da una sensazione di buio, accompagnata da un tremito che percorse tutte le sue forme infantili. Questa volta però non ci fu metamorfosi. Il bambino si accasciò contro lo schienale della poltroncina, ansimando, mentre dal pene gli scaturiva un rivoletto di orina chiara a bagnargli la salvietta legata tra le gambe. La consolle davanti alla poltrona, su cui il neonato si era accasciato messo di traverso ad ansimare come un cane, emise un rumore ovattato.
Dall'altra parte della stanza, la porta scorrevole con scritto INGRESSO PRINCIPALE si aprì. Entrò a passi pesanti Nigel, che ora non smetteva praticamente più di voltare la capsula che aveva per testa da una parte e dall'altra, contando non più in due oltre lingue, ma forse in una decina intera.
«Signore, non posso davvero continuare a...»
Con una serie di allegri gu-gu-ga-ga da neonato, Mordred protese le mani verso il sacco. Il pensiero che inviò al robot fu tanto esplicito quanto perentorio: Zitto. Dammi qui.
Nigel posò il sacco sulle sue ginocchia. Da esso uscì uno squittio simile quasi a un gemito umano e solo in quel momento Mordred si rese conto che ad agitarsi era una sola creatura. Non un topo, dunque! Qualcosa di più grosso! Più carne e più sangue!
Aprì il sacco e vi guardò dentro. Lo guardarono imploranti due occhi cerchiati d'oro. Per un momento pensò che fosse l'uccello che volava di notte, l'uccello hu-hu, non ricordava il nome, poi vide che l'animale era coperto di pelo e non di penne. Era un throcken, conosciuto in molte parti del Medio-Mondo come bimbolo, così piccolo, quello, da non poter esser stato svezzato da molto da sua madre.
Buono buono, pensò rivolgendosi al bimbolo mentre cominciava a sbavare. Siamo nella stessa barca, mio piccolo camerata, figli orfani in un mondo duro e crudele. Buono, che ci penso io a consolarti.
Comunicare con una creatura così giovane e intellettualmente elementare come quella non era molto diverso che comunicare con le macchine. Mordred guardò nei suoi pensieri e localizzò il nodo che controllava il suo semplice centro della volontà. Lo afferrò con una mano fatta di pensiero, fabbricata con la propria volontà. Per un istante percepì il timido pensiero di speranza formulato dalla creatura
(non farmi del male ti prego non farmi del male; ti prego lasciami vivere; voglio vivere e divertirmi e giocare un po'; non farmi del male ti prego non farmi del male ti prego lasciami vivere)
e rispose:
Va tutto bene, non temere, camerata, va tutto bene.
Il bimbolo dentro il sacco (Nigel l'aveva trovato al parco macchine, separato da madre, fratelli e sorelle dal chiudersi di una porta automatica) si rilassò... non tanto perché ci credesse, ma perché sperò di crederci.
6
Nello studio di Nigel le luci erano state abbassate a un quarto della loro potenza. Quando Oy cominciò a gemere, Jake si svegliò di scatto. Gli altri continuarono a dormire, almeno sulle prime.
Che cosa c'è, Oy?
Il bimbolo non rispose e continuò invece a guaire dal fondo della gola. I suoi occhi cerchiati d'oro erano fissi nell'ombra fitta dell'angolo più distante, come se laggiù vedessero qualcosa di terribile. Jake ricordava di aver sbirciato nell'angolo della sua camera da letto in quella stessa maniera dopo che si svegliava da un incubo nelle ore piccole della notte, un sogno con Frankenstein o Dracula o
(un tirannosorbo)
qualche altro spauracchio, qualunque fosse. Ora, pensando che forse anche i bimboli avessero gli incubi, s'impegnò ancora di più nel toccare la mente di Oy. Dapprincipio non trovò niente, poi l'immagine sfocata e profonda
(occhi... occhi che guardavano dalla tenebra)
di qualcosa che poteva essere un bimbolo dentro un sacco.
«Sssst», bisbigliò all'orecchio di Oy, cingendolo con un braccio. «Non svegliarli, hanno bisogno di riposare.»
«Sare», disse Oy, a voce bassissima. «Hai solo fatto un brutto sogno», sussurrò Jake. «Qualche volta capita anche a me. Non sono cose vere. Nessuno ti ha messo in quel sacco. Torna a dormire.»
«Mire.» Oy posò il muso sulla zampa anteriore destra. «Oy-buono.»
Bravo, Jake si rivolse a lui, Oy sta buono.
Gli occhi cerchiati d'oro, ancora turbati, rimasero aperti ancora un po'. Poi Oy strizzò un occhio a Jake e li chiuse entrambi. Un istante dopo, il bimbolo dormiva di nuovo. Poco distante uno della sua specie era morto... ma morire era cosa di questo mondo; era un mondo duro e sempre lo sarebbe stato.
Oy sognò di essere con Jake sotto il grande globo arancione della Luna dell'Ambulante. Jake, dormendo a sua volta, lo intercettò tramite il tocco e insieme sognarono la Luna del Girovago.
Chi è morto, Oy? chiese Jake sotto l'ammiccare sagace dell'unico occhio dell'Ambulante.
Oy, rispose il suo amico. Delah... Molti.
Sotto il vuoto sguardo arancione del Girovago, Oy non aggiunse altro; aveva in verità trovato un sogno dentro il suo sogno e lì si recò anche Jake con lui. Quel sogno era migliore. In esso giocavano insieme nella luce scintillante del sole. Si unì a loro un altro bimbolo, un animaletto triste, a giudicare dall'espressione. Cercò di parlare, ma né Jake né Oy capirono che cosa stesse dicendo, perché parlava in inglese.
7
Mordred non era abbastanza forte da estrarre il bimbolo dal sacco e Nigel o non voleva o non poteva aiutarlo. Il robot sostava appena oltre la porta del Centro di Controllo e torceva la testa di qua e di là, contando e sferragliando più che mai. Aveva cominciato a emanare un odore di surriscaldamento e circuiti cotti.
Mordred riuscì a rovesciare il sacco e il bimbolo, probabilmente di pochi mesi, gli cadde in grembo. Aveva gli occhi aperti per metà, ma le pupille gialle e nere erano spente e immobili.
Mordred rovesciò la testa all'indietro con una smorfia di concentrazione. Il lampo rosso gli percorse il corpo e i capelli cercarono di drizzarglisi sulla testa. Ma prima che potessero cominciare a sollevarsi dal cranio, scomparvero assieme al corpo da infante al quale appartenevano. Tornò ragno. Agganciò quattro delle sue sette zampe al corpo del bimbolo e se lo portò senza fatica alla bocca agognante. In venti secondi lo aveva prosciugato completamente. Conficcò la bocca nel ventre soffice della creatura, glielo squarciò, levò il corpo ancora più in alto e ne divorò le budella che rotolavano fuori: squisite masse rifocillanti di carni madide. Mangiò più a fondo tra sommessi mugolii di soddisfazione, spaccò la spina dorsale del bimbolo e succhiò il poco midollo che affiorò dall'osso. La gran parte dell'energia era contenuta nel sangue - aye, sempre nel sangue, come ben sapevano gli Avi - ma c'era forza anche nella carne. Come neonato umano (Roland aveva usato il vecchio vezzeggiativo di Gilead, bah-bo), non avrebbe potuto trovare nutrimento né nel succo, né nelle carni. Anzi, ne sarebbe stato probabilmente strozzato a morte. Ma da ragno...
Quand'ebbe finito, buttò il cadavere per terra, dove già aveva gettato i corpi smunti e disseccati dei topi. Nigel, il devoto zelante maggiordomo, li aveva fatti scomparire. Non avrebbe portato via il bimbolo. Per quanto Mordred strepitasse Nigel, ho bisogno di te! Nigel rimaneva in silenzio. Attorno al robot l'odore di plastica bruciata era diventato abbastanza forte da attivare i ventilatori a soffitto. DNK 45932 era immobile con la faccia orbata girata a sinistra. Gli conferiva un'espressione stranamente incuriosita, come se fosse morto mentre era sul punto di formulare una domanda importante: qual è il significato della vita, forse, oppure chi è che bussa al mio convento? In tutti i modi, la sua breve carriera di acchiappatopi e acchiappabimboli era finita.
Intanto Mordred era ricaricato di energie - il cibo era stato fresco e gustoso - ma quella condizione non sarebbe durata a lungo. Se fosse rimasto nella sua forma di ragno, avrebbe consumato le sue nuove scorte di forza ancor più velocemente. D'altra parte, se fosse ridiventato bambino, non sarebbe neppure stato in grado di scendere da quella poltroncina, o rimettersi il pannolino, che naturalmente gli era scivolato via quando si era trasformato.
Me era costretto a cambiare di nuovo, perché da ragno non era assolutamente in grado di pensare con lucidità. E quanto al ragionamento deduttivo... c'era solo da riderci sopra. Il nodulo bianco che sporgeva dal dorso del ragno chiuse i suoi occhi umani e il nero corpo sottostante balenò di una luce color rosso cupo. Le zampe si ritrassero e scomparvero. Il nodulo che era la testa del neonato crebbe e assunse la sua fisionomia mentre il corpo si schiariva e assumeva forma umana; poi gli occhi azzurri del bambino, occhi da bombardiere, occhi da pistolero, si accesero. Era ancora pieno delle forze acquisite dal sangue e dalle carni del bimbolo, lo sentiva mentre la metamorfosi giungeva velocemente a conclusione, ma un buon quantitativo (come dire la schiuma di un boccale di birra) era già andato perso. E non solo per essere passato da una parte all'altra. Il fatto è che cresceva a velocità supersonica. Quel genere di sviluppo richiedeva un'alimentazione incessante, mentre alla Stazione Sperimentale dell'Arco 16 il cibo scarseggiava parecchio. E anche in tutta Fedic, se è per questo. C'erano generi alimentari in scatola e cibi confezionati e bibite energetiche liofilizzate, yar, ce n'erano in abbondanza, ma nulla di tutto quello avrebbe potuto nutrirlo come lui aveva bisogno di essere nutrito. Mordred aveva bisogno di carne fresca, e ancor più della carne, aveva bisogno di sangue. E il sangue degli animali avrebbe sopperito alle spaventose esigenze della sua crescita solo per un po'. Presto avrebbe avuto bisogno di sangue umano, altrimenti il ritmo del suo sviluppo sarebbe dapprima rallentato e infine si sarebbe bloccato del tutto. Sarebbe affiorato il dolore della fame, ma quel dolore, che gli si sarebbe avvitato con sadismo nelle viscere come una trivella, nulla sarebbe stato al confronto del dolore mentale e spirituale di vedere loro su tutti quei monitor: ancora vivi, riuniti nella loro fratellanza, confortati dalla loro causa.
Il dolore di vedere lui. Roland di Gilead.
Come tuttavia sapeva le cose che sapeva? Grazie a sua madre?
Alcune, sì, perché mentre si nutriva al suo seno erano stati milioni i pensieri e i ricordi di Mia (molti dei quali rubati a Susannah) che gli si erano versati nella mente. Ma come faceva a sapere che era così anche per gli Avi? Che, per esempio, un vampiro tedesco che succhiava il sangue della vita da un francese parlava poi francese per una settimana o anche dieci giorni, lo parlava come se fosse la sua lingua madre, e che poi quella peculiarità, come i ricordi della sua vittima, cominciava ad appannarsi...
Come faceva a sapere una cosa così?
Aveva importanza?
Ora li guardò dormire. Il ragazzo, Jake, si era svegliato, ma per poco. In precedenza Mordred li aveva guardati mangiare, quattro imbecilli e un bimbolo - pieno di sangue, pieno di energia - che desinavano seduti insieme, disposti in circolo. Sempre in circolo si sarebbero seduti, avrebbero ricreato quel circolo ogni volta che si fossero fermati a riposare per cinque minuti lungo il cammino, lo avrebbero composto senza nemmeno rendersene conto, quel circolo che escludeva il resto del mondo. Mordred non aveva un circolo. Sebbene novello, già capiva che fuori era il suo ka, come era il ka del vento d'inverno soffiare solo per metà della bussola: da nord a ovest poi di nuovo verso il gelido nord. Lo accettava, questo, ciononostante li osservava con l'invidia di «quello di fuori», sapendo che avrebbe fatto loro del male e che la soddisfazione sarebbe stata amara. Lui era di due mondi, il preconizzato congiungersi di Prim e Am, di gadosh e godosh, di Gan e Gilead. Era in un certo senso come Gesù Cristo, ma a modo suo era più puro dell'uomo-dio-pecora, perché l'uomo-dio-pecora aveva un solo vero padre, che risiedeva nell'alto di un cielo ipotetico, e un patrigno che si trovava sulla Terra. Povero vecchio Giuseppe, che portava le corna che gli aveva affibbiato Dio stesso.
Mordred Deschain, invece, aveva due padri veri. Uno dei quali dormiva ora sullo schermo davanti a lui.
Sei vecchio, padre, pensò. Provò un piacere maligno nel pensare così. Lo fece anche sentire piccolo e cattivo, niente più che... be', niente più che un ragno, che guarda dall'alto della sua tela. Mordred era due gemelli e così sarebbe rimasto fino a quando Roland dell'Eld non fosse morto e il suo ultimo ka-tet non fosse stato spezzato. E la voce nostalgica che lo incitava ad andare da Roland e chiamarlo padre? Chiamare Eddie e Jake suoi fratelli, Susannah sua sorella? Quella era la risibile voce di sua madre. Lo avrebbero ucciso prima che avesse potuto spiccicare una sola parola (posto che avesse superato lo stadio dei farfugliamenti infantili). Gli avrebbero tagliato via le palle e le avrebbero date da mangiare al bimbolo di quel moccioso. Avrebbero seppellito il suo cadavere castrato e avrebbero cacato sulla terra che lo ricopriva e se ne sarebbero andati via senza rimpianti.
Sei finalmente vecchio, padre, e ora cammini zoppicando e alla fine del giorno io ti vedo strofinarti il fianco con una mano in cui scorgo un principio di tremito.
Guarda, se ti va. Qui siede un neonato con del sangue che gli riga la pelle immacolata. Qui siede un neonato che piange le sue lacrime silenziose e strane. Qui siede un neonato che sa troppo e troppo poco e sebbene dobbiamo stare attenti a tenere le dita lontane dalla sua bocca (morde, costui; morde come un coccodrillino), ci è concesso provare per lui un minimo di compassione. Se il ka è un treno - e lo è, un grande Mono lanciato, forse sano di mente, forse no - allora questo perfido piccolo licantropo ne è lo stadio più vulnerabile, non legato alle rotaie come la piccola Nell, ma ai fanali stessi della motrice.
Racconti pure a se stesso di avere due padri, e potrebbe anche esserci del vero in questo, ma qui non ci sono né padre né madre. Sua madre, l'ha divorata viva, diciamo il vero, l'ha mangiata alla grande-grande, è stata il suo primo pasto, e che scelta aveva? Lui è l'ultimo miracolo generato dalla Torre Nera che ancora si regge, il connubio distorto di razionale e irrazionale, naturale e soprannaturale, e tuttavia è solo ed è affamato. Sarà forse destinato a governare su una catena di universi (o a distruggerli tutti), ma finora è riuscito a stabilire il suo dominio solo su un vecchio robot domestico, ora finito nella radura in fondo al sentiero.
Osserva il pistolero addormentato con amore e odio, rancore e desiderio. Ma supponiamo che vada da loro e non sia ucciso. Supponiamo che lo accolgano. Ridicolo, sì, ma ammettiamo l'ipotesi in via puramente teorica. In tal caso ci si aspetterebbe che riverisse Roland, lo accettasse come suo dinh, e questo mai farà, mai e poi mai.
3
Il laccio
1
«Li stavi spiando», disse una voce sommessa e divertita. Recitò quindi alcuni versi di una filastrocca infantile, in cui Roland avrebbe riconosciuto subito una nenia dei suoi primi anni di vita: «'Ucci-ucci bel nasino! Cosa spia quell'occhiolino? Ma chi è quel birichino? Guarda un po', è il mio bimbino!' Ti è piaciuto quello che hai visto prima di addormentarti? Li hai visti andare avanti con il resto di questo precario mondo?»
Erano trascorse forse dieci ore da quando Nigel il robot domestico aveva eseguito la sua ultima mansione. Mordred, che veramente era caduto in un sonno profondo, girò la testa senza torpore residuo o sorpresa verso la voce sconosciuta. Vide un uomo in blue jeans e giaccone con cappuccio fermo sul pavimento di piastrelle grigie del Centro di Controllo. Posato ai suoi piedi c'era il suo bagaglio, nient'altro che un frusto sacco da marinaio. Aveva le guance arrossate, un volto piacente, occhi ardenti. In mano stringeva un'automatica e, mentre guardava nell'occhio nero della sua canna, Mordred Deschain si rese conto per la seconda volta che persino gli dei potevano morire se la loro divinità era stata diluita con sangue umano. Ma non ebbe paura. Non ora. Guardò tuttavia di nuovo i monitor che mostravano l'appartamento di Nigel ed ebbe conferma che lo sconosciuto aveva ragione: era vuoto.
Sorridendo, lo sconosciuto che sembrava sbucato dal pavimento alzò la mano libera e rovesciò all'infuori un lembo del cappuccio. Mordred vide scintillare del metallo. Il cappuccio era foderato di una sorta di rete di cavi.
«Io lo chiamo il mio 'cappello pensante'», disse lo sconosciuto. «Non posso sentire i tuoi pensieri, che è una limitazione, ma tu non puoi entrare nella mia testa, che è...»
(che è sicuramente un vantaggio, non ti pare)
«... che è sicuramente un vantaggio, non ti pare?»
Aveva due toppe cucite sulla giacca. Su una si leggeva U.S. ARMY con un uccello, l'uccello-aquila, non l'uccello hu-hu. L'altra toppa era un nome: RANDALL FLAGG. Mordred scoprì di saper leggere e nemmeno questo lo sorprese.
«Perché se sei solo anche lontanamente simile a tuo padre, e intendo quello rosso, allora i tuoi poteri mentali potrebbero andare al di là della semplice comunicazione.» L'uomo con il giaccone ridacchiò. Non voleva che Mordred si accorgesse che aveva paura. Forse si era convinto di non aver paura, di essere andato lì spontaneamente. Forse era vero. A Mordred non importava, né in un senso né nell'altro. Né gli interessavano i progetti di quell'uomo, che gli scorrevano mischiati nella testa come un minestrone. Davvero credeva che il suo «cappello pensante» gli nascondesse i pensieri? Mordred guardò meglio, affondò la sua sonda e vide che la risposta era sì. Molto conveniente.
«Io comunque tengo in alta considerazione la prudenza. Non c'è strategia migliore. Come altrimenti sarei sopravvissuto alla caduta di Farson e alla morte di Gilead? Non mi va che tu ti introduca nella mia testa e mi induca a buttarmi da un grattacielo, ti sembra? D'altra parte, perché dovresti farlo? Hai bisogno di me o di qualcuno, ora che il tuo sacco di dadi e bulloni si è spento e tu sei solo un bah-bo nemmeno capace di legarti uno straccio tra quelle chiappe sporche di merda!»
Lo sconosciuto, che non era affatto uno sconosciuto, rise. Mordred lo guardava dalla sua poltrona. Su un lato della guancia il bambino aveva un baffo rosso, perché si era addormentato appoggiato da quella parte alla manina.
«Io credo che possiamo comunicare più che bene se io parlo e tu fai segno con la testa di sì e di no», continuò lo sconosciuto. «Se non capisci, batti sul bracciolo. Semplicissimo! D'accordo?»
Mordred annuì. L'uomo sentiva qualcosa di inquietante - très inquietante - nella fissità di quello sguardo azzurro, ma cercò di non darlo a vedere. Si chiese di nuovo se andare lì fosse stato saggio, ma aveva seguito le tracce di Mia fin da quando aveva avuto inizio la sua gravidanza e perché lo aveva fatto se non per questo? Era un gioco pericoloso, ma ora rimanevano solo due creature in grado di aprire la porta ai piedi della Torre prima che la Torre cadesse... cosa che sarebbe avvenuta presto, perché allo scrittore rimanevano solo pochi giorni da vivere in questo mondo e gli ultimi Libri della Torre, tre in tutto, non erano ancora stati scritti. Nell'ultimo che aveva scritto in quel mondo-chiave, il ka-tet di Roland aveva scacciato sai Randy Flagg da un palazzo di sogno su un'Interstate, un palazzo che a Eddie, Susannah e Jake era sembrato simile al Castello di Oz il Grande e Terribile (Oz il Re Verde, di grazia). A dirla tutta, avevano quasi ammazzato quel vecchio bastardo di un blablà di Walter o'Dim, realizzando quello che senza dubbio qualcuno avrebbe definito un lieto fine. Ma una volta concluso La sfera del buio, non una parola su Roland e la Torre Nera aveva scritto Stephen King e Walter considerava questo il vero lieto fine. La gente di Calla Bryn Sturgis, i bimbi guasti, Mia e il figlio di Mia: tutto questo dormiva ancora in un confuso stato embrionale nell'inconscio dello scrittore, creature non nate dietro una porta introvata. E ora Walter giudicava che fosse troppo tardi per liberarle. Per quanto maledettamente veloce fosse stato King nella sua scalata al successo - uno scrittore di talento genuino che si era trasformato in un dozzinale (ma ricco) scribacchino usa e getta, un Algernon Swinburne senza rima, di grazia - con il poco tempo che gli restava non sarebbe riuscito a mettere assieme neppure le prime cento pagine di quanto rimaneva da raccontare, lavorasse pure giorno e notte.
Troppo tardi.
Il giorno giusto c'era stato, Walter lo sapeva bene: era stato al Le Casse Roi Russe, e lo aveva visto nella sfera di cristallo che la Vecchia Cosa Rossa possedeva ancora (ma ormai senza dubbio accantonata in qualche angolo del castello). Nell'estate del 1997, King aveva ben chiara nella mente la storia dei Lupi, i gemelli e i piatti volanti chiamati Oriza. Ma lo scrittore aveva considerato tutto questo troppa fatica. Aveva scelto un libro di racconti più o meno legati a uno stesso filo che aveva intitolato Cuori in Atlantide, e anche ora, nella sua casa in Turtleback Lane (dove non aveva mai visto nemmeno l'ombra di un walk-in), lo scrittore sperperava il poco tempo restante scrivendo di pace e amore e Vietnam. C'era sì un personaggio in quello che sarebbe stato l'ultimo libro di King che avrebbe avuto un ruolo nell'eventuale sviluppo della Torre Nera, ma quel tizio, un vecchio dall'intelletto vivace, non avrebbe mai avuto l'occasione di pronunciare battute di qualche conto. Splendido.
Nell'unico mondo veramente importante, il mondo vero dove il tempo non tornava mai indietro e non c'erano seconde possibilità (diciamo il vero), era il 12 giugno 1999. Allo scrittore restavano meno di duecento ore.
Walter o'Dim sapeva di non avere altrettanto tempo a disposizione per arrivare alla Torre Nera, perché da questa parte il tempo (come il metabolismo di certi ragni) scorreva più veloce e affannoso. Diciamo cinque giorni. Cinque e mezzo al massimo. Tanto aveva a disposizione per raggiungere la Torre con il piede amputato di Mordred Deschain, quello con la voglia... aprire la porta in basso e salire quelle scale mormoranti... oltrepassare il Re Rosso intrappolato...
Se avesse trovato un veicolo... o la porta giusta...
Era troppo tardi per diventare il Dio di Tutti?
Forse no. E allora che male c'era a provarci?
Walter o'Dim aveva vagato a lungo e sotto cento nomi, ma la Torre era sempre stata la sua meta. Come Roland, voleva salire in cima e vedere chi c'era. Se qualcosa c'era.
Non aveva aderito a nessuna delle conventicole e sette e superstizioni e chiesuole spuntate come funghi negli anni confusi da quando la Torre aveva cominciato a vacillare, sebbene ne avesse portato i sigul quando gli tornava comodo. La sua sottomissione al Re Rosso era cosa degli ultimi tempi, come i servigi resi a John Farson, il Buono che aveva precipitato Gilead, l'ultimo bastione della civiltà, in un gorgo di sangue e sterminio. Walter aveva avuto la sua parte negli assassini di quegli anni, vivendo una vita lunga e solo quasi mortale. Aveva assistito alla fine di quello che allora credeva fosse l'ultimo ka-tet di Roland, caduto a Jericho Hill. Assistito? Ma che eccesso di modestia, per tutti gli dei del cielo e i pesci del mare! Sotto il nome di Rudin Filaro, aveva combattuto con la faccia pitturata di blu, aveva gridato e assaltato con gli altri barbari puzzolenti ed era stato lui stesso ad abbattere Cuthbert Allgood con una freccia in un occhio. Ma tutto questo aveva fatto senza mai perdere di vista la Torre. Forse è il motivo per cui il maledetto pistolero - mentre il sole scendeva sull'operato di quel giorno, Roland di Gilead era stato l'ultimo - era riuscito a fuggire, seppellendosi sotto i morti trasportati da un carro e sgusciandone fuori al tramonto, un attimo prima che appiccassero l'incendio.
Aveva visto Roland anni prima, a Mejis, e anche lì lo aveva mancato (ma ne aveva attribuito la responsabilità soprattutto a Eldred Jonas, dalla voce tremula e dai lunghi capelli grigi, e per questo Jonas aveva pagato). Allora il Re gli aveva detto che con Roland non avevano ancora chiuso, che il pistolero avrebbe dato inizio alla fine di ogni cosa e avrebbe provocato la caduta di ciò che desiderava salvare. A questo pronostico Walter aveva incominciato a credere solo quando, nel deserto di Mohaine, guardandosi intorno un giorno aveva scoperto di essere inseguito da un certo pistolero, invecchiato nel corso di anni crepuscolari, e non vi aveva creduto completamente fino al riapparire di Mia, che avverò un'antica e buia profezia dando i natali al figlio del Re Rosso. Certamente la Vecchia Cosa Rossa non gli era più di alcuna utilità, ma anche nella prigionia e nella follia, rimaneva un essere pericoloso... qualunque cosa fosse.
Comunque, finché non aveva avuto Roland a completarlo - a renderlo più grande forse del suo stesso destino - Walter o'Dim non era stato che un viandante avanzato dai tempi andati, un mercenario con la vaga ambizione di penetrare nella Torre prima che fosse fatta crollare. Non era stata forse quella la prima ragione per cui si era rivolto al Re Rosso? Sì. E non era colpa sua se il grosso re-ragno era impazzito.
Pazienza. Lì c'era suo figlio con lo stesso marchio sul tallone - Walter lo vedeva in quel preciso istante - e tutti i conti tornavano. Naturalmente avrebbe dovuto agire con cautela. La creatura su quella poltroncina sembrava inoffensiva e vulnerabile, forse addirittura pensava di esserlo, ma sarebbe stato un errore sottovalutarla perché aveva le sembianze di un neonato.
Walter ripose la pistola in tasca (per un momento, solo per quel momento) e protese le mani, vuote e con i palmi all'insù. Poi ne chiuse una in un pugno, che si portò alla fronte. Lentamente, senza mai distogliere lo guardo da Mordred, attento a eventuali mutamenti (Walter aveva visto quella trasmutazione e che cosa era successo alla madre di quella bestiolina), l'uomo si abbassò su un ginocchio.
«Hile, Mordred Deschain, figlio di Roland di Gilead che fu e del Re Rosso il cui nome era conosciuto un tempo da Fine-Mondo a Oltre-Mondo; hile, figlio di due padri, entrambi discendenti da Arthur Eld, primo re a sorgere dopo la recessione del Prim, e Guardiano della Torre Nera.»
Per un istante non accadde nulla. Nel Centro di Controllo c'era solo silenzio e l'odore persistente dei circuiti bruciati di Nigel.
Poi il neonato alzò i pugnetti, li aprì e levò le mani: Alzati, servo, e vieni a me.
2
«Ti conviene non pensare forte, comunque», lo ammonì Walter avvicinandosi. «Sapevano che eri qui e Roland è ma' gistralmente astuto; fino-delah è quel pistolero. Una volta mi raggiunse, sai, e credetti che per me fosse la fine. Davvero.» Dal suo fagotto l'uomo che talvolta si faceva chiamare Flagg (a un altro livello della Torre sotto quel nome aveva portato a rovina un mondo intero) aveva prelevato burro d'arachidi e cracker. Aveva chiesto il permesso al suo nuovo dinh e il neonato (nonostante divorato lui stesso dalla fame) glielo aveva concesso con un cenno regale del capo. Ora Walter si sedette sul pavimento a gambe incrociate a mangiare svelto, protetto dal suo cappello pensante, senza sapere che nella sua testa un intruso stava saccheggiando tutte le sue cognizioni. Sarebbe stato al sicuro finché fosse stata in corso la razzia, ma poi...
Mordred alzò nell'aria la mano neonata e paffuta e la riabbassò in un gesto aggraziato nella forma di un punto interrogativo.
«Come sono fuggito?» chiese Walter. «Oh, ma ho agito come sempre fa un ingannatore in circostanze simili: gli ho detto la verità! Gli ho mostrato la Torre, almeno per alcuni dei suoi livelli. L'ho sbalordito, ho fatto sbocciare il suo stupore, e mentre era in tal modo aperto, ho preso un foglio dal suo stesso libro e l'ho ipnotizzato. Eravamo in una di quelle fistole del tempo che talvolta la Torre sprigiona come un vortice e mentre noi tenevamo il nostro conciliabolo in quel cimitero di ossa, il mondo tutt'intorno andò avanti, aye! E io portai altre ossa, ossa umane, e mentre lui dormiva le vestii con quanto restava dei miei indumenti. Avrei potuto ucciderlo, in quel momento, ma che cosa sarebbe stato della Torre se lo avessi fatto, eh? E di te, se è per questo? Tu non saresti mai stato generato. Si può ben affermare, Mordred, che permettendo a Roland di vivere e trarre i suoi tre, ho salvato la vita a te prima ancora che la tua vita fosse cominciata, orsì. Mi ritirai in riva al mare, eh sì, avevo proprio bisogno di una piccola vacanza! Quando Roland arrivò, lui andò da una parte, verso le tre porte. Io dall'altra, Mordred mio caro, ed eccomi qui!»
Rise con la bocca piena di cracker e si spruzzò briciole sul mento e la camicia. Mordred sorrise, ma era nauseato. Con quel coso avrebbe dovuto lavorare? Quello? Un cretino che ingollava cracker e sputacchiava briciole, tanto tronfio delle proprie passate imprese da non avvertire il pericolo presente o da sapere che le sue difese erano state violate? Per tutti gli dei, ma quello meritava di schiattare! Prima che avvenisse, però, c'erano altre due cose di cui aveva bisogno. Una era sapere dove erano andati Roland e i suoi amici. L'altra era nutrirsi. Quell'imbecille sarebbe servito a entrambe. E perché sarebbe stato facile? Ma perché anche Walter era invecchiato, era diventato vecchio e fatalmente sicuro di sé, e troppo vanesio da rendersene conto.
«Ti incuriosisce forse perché io sono qui e non i progetti di tuo padre», insinuò Walter. «Vero?»
Non era così, ma Mordred annuì lo stesso. Gli gorgogliò lo stomaco.
«In verità, io sono i suoi progetti», disse Walter e gli rivolse il più affascinante dei suoi sorrisi (un po' guastato dal burro d'arachidi che aveva sui denti). Forse un tempo sapeva che ogni affermazione che iniziava con le parole in verità era quasi sempre una bugia. Non più. Troppo vecchio per saperlo. Troppo vanitoso per saperlo. Troppo stupido per ricordarlo. Ma era vigile lo stesso. Percepiva la forza del bambino. Nella testa? Che gli frugava nella testa? Sicuramente no. La cosa prigioniera in quel corpo da neonato era potente, ma senz'altro non così potente.
Walter si protese in avanti con le mani premute sulle ginocchia.
«Il tuo padre rosso è... indisposto. In conseguenza d'essere vissuto così vicino alla Torre per tanto tempo e di avere pensato a essa così profondamente, non ho dubbio. Spetta a te finire quello che lui ha cominciato. Io sono venuto ad aiutarti in questo.»
Mordred annuì, come se ne fosse contento. Ne era contento. Però, ah, aveva anche tanta fame.
«Ti sarai forse chiesto come ti ho raggiunto in questa stanza che sarebbe dovuta essere inviolabile», riprese Walter. «In verità ho contribuito anch'io a costruire questo posto, in quello che Roland chiamerebbe il tempo che fu.»
Di nuovo quell'incipit, palese come una strizzata d'occhio.
Si era infilato la pistola nella tasca sinistra del giaccone. Ora, da quella destra, estrasse un aggeggio grande quanto un pacchetto di sigarette, ne protrasse un'antenna argentea e pigiò un pulsante. Una sezione di piastrelle grigie si ritrasse senza rumore aprendosi su una rampa di scale. Mordred annuì. Dunque Walter - oppure Randall Flagg se così si faceva chiamare ora - era veramente sbucato dal pavimento. Un bel trucco, ma d'altra parte aveva un tempo servito Steven, padre di Roland, come mago di corte di Gilead, giusto? Sotto il nome di Marten. Un uomo dalle molte facce e dai molti bei trucchetti, questo Walter o'Dim, ma mai ingegnoso quanto credeva di essere. Nemmeno la metà. Perché Mordred ora aveva avuto l'ultima cosa che stava cercando, il modo cioè in cui Roland e i suoi amici erano usciti da lì. Così non gli sarebbe stato necessario stanarlo dal nascondiglio in cui era conservato nella mente di Walter. Gli sarebbe bastato ripercorrere il percorso di quel cretino.
Prima, però...
Il sorriso di Walter si era attenuato. «Hai detto qualcosa, sire? Perché mi è sembrato di sentire il suono della tua voce, in fondo alla mente.»
Il neonato scosse la testa. E chi è più credibile di un neonato? Non è forse il suo viso il paradigma stesso di innocenza e franchezza?
«Ti prendo con me e li inseguo, se vuoi venire», propose Walter. «Che coppia faremmo! Sono partiti per il devar-toi di Rombo di Tuono, a liberare i Frangitori. Avevo già giurato di vedermela con tuo padre, il tuo padre bianco e il suo ka-tet se avessero avuto la temerarietà di andarci, e quello è un giuramento che intendo onorare. Perché, odimi bene, Mordred, il pistolero Roland Deschain mi ha avversato a ogni piè sospinto e io non lo sopporto più. Non più! Hai sentito?» L'ira gli aveva fatto alzare la voce.
Mordred rispose con un cenno innocente di affermazione, sgranando gli occhi da bel bambino in un'espressione che si sarebbe potuta scambiare per paura o meraviglia o entrambe. Walter o'Dim parve comunque gongolare sotto quello sguardo e a quel punto l'unico vero interrogativo che rimaneva era quando prenderlo, se subito o più tardi. Mordred aveva una gran fame, ma pensò che avrebbe resistito ancora un poco. C'era qualcosa di stranamente avvincente nello spettacolo che offriva quell'imbecille nell'atto di tessere le ultime maglie del suo destino con tanto trasporto.
Tracciò di nuovo nell'aria il segno di un punto di domanda.
Sul volto di Walter sfumarono le ultime vestigia di un sorriso. «Che cosa voglio davvero? È questo che chiedi?»
Mordred fece cenno di sì.
«Non è affatto la Torre Nera, se vuoi la verità. È Roland che mi si è fissato nella mente e nel cuore. Lo voglio morto.» Il suo tono fu di truce finalità. «Per le lunghe e polverose leghe del suo inseguimento; per tutti i guai che mi ha provocato; e per il Re Rosso, sì, il vero re, orsì; per la sua ostinazione nel rifiutare di rinunciare alla sua missione a dispetto di tutti gli ostacoli incontrati sul suo cammino; soprattutto per la morte di sua madre, che una volta amai.» E, in un tono più dimesso: «O almeno desiderai. Fu comunque lui a ucciderla. Quale che sia la parte che abbiamo avuto in merito io o Rhea del Cöos, fu quel ragazzo a strapparle l'ultimo respiro con le sue dannate pistole, la mente tarda e le mani veloci.
«Quanto alla fine dell'universo... che venga come vuole, dico io, con il ghiaccio, il fuoco o le tenebre. Che cosa ha mai fatto per me l'universo perché io debba avere a cuore il suo benessere? Io so solo che Roland di Gilead è vissuto troppo a lungo e voglio vedere quel figlio di puttana sotto terra. E con lui quelli che ha tratto».
Per la terza e ultima volta Mordred disegnò nell'aria la forma di un punto interrogativo.
«C'è una sola porta praticabile da qui al devar-toi, giovane signore. È quella che usano i Lupi... o quella che usavano; credo che abbiano compiuto il loro ultimo viaggio, orsì. Roland e i suoi amici sono passati per di lì, ma non fa niente, dove usciranno troveranno di che essere occupati... potrebbero ricevere un'accoglienza fin troppo calorosa! Magari possiamo attaccarli nel momento in cui saranno occupati con i Frangitori e quelli che restano dei Figli di Roderick e le guardie. Ti andrebbe?»
L'infante annuì senza esitare. Poi si portò le mani alla bocca per succhiarsele.
«Sì», disse Walter. Riapparve il sorriso. «Hai fame, ma certo. E credo che non sarai più costretto a pasteggiare mangiando topi e cuccioli di bimbolo, giusto?»
Mordred annuì di nuovo. Ne era più che certo.
«Vuoi che faccia il bravo paparino e ti porti io?» propose Walter. «Così non sarai costretto a trasformarti in ragno. Puah! Una forma che non ispira amore, devo dire, e nemmeno simpatia.»
Mordred protendeva le braccia verso di lui.
«Non mi cacherai addosso, vero?» chiese Walter fermandosi a pochi passi da lui. Si fece scivolare la mano nella tasca e Mordred si accorse con una certa apprensione che l'infido bastardo era riuscito comunque a nascondergli qualcosa: sapeva che il suo «cappello pensante» non bastava. Ora aveva infine deciso di usare la pistola.
3
In realtà Mordred accordava a Walter o'Dim un credito eccessivo, ma non è questo tipico dei giovani, se non addirittura una forma di istinto di sopravvivenza? Agli occhi spalancati del ragazzino, appaiono come prodigi anche i trucchi più scadenti del più goffo dei prestidigitatori. Walter si rese conto di ciò che stava accadendo solo all'ultimo momento, ma era un sopravvissuto vecchio e scaltro, e dico il vero, e quando comprese, lo fece fino in fondo.
C'è un'espressione, «l'elefante in soggiorno», che vorrebbe descrivere una situazione eclatante: droga, alcolismo, violenza. Le persone talvolta chiedono, quando la magagna è saltata fuori: «Come hai potuto lasciare che andasse avanti così per tanti anni? Non hai visto l'elefante in soggiorno?» Ed è così difficile per chi vive in una situazione più normale capire la risposta che più si avvicina alla verità: «Mi spiace, ma quando sono arrivato io, era già lì. Non sapevo che fosse un elefante; credevo che fosse parte dell'arredamento». Per alcuni, quelli fortunati, arriva un momento-aha! quando si rendono conto all'improvviso della differenza. E quel momento giunse per Walter. Giunse troppo tardi, ma non di molto.
Non mi cacherai addosso, vero? Quella era la domanda che aveva posto, ma tra le parole cacherai e addosso, sentì a un tratto che in casa sua c'era un intruso... e che c'era stato fin dall'inizio. E non era un neonato. Era un adolescente allampanato e dalla fronte sfuggente con la pelle butterata e occhi spenti ma curiosi. Era forse la visualizzazione migliore e più fedele che Walter avrebbe potuto fare di Mordred Deschain in quel momento della sua esistenza: un adolescente introdottosi in casa altrui dopo essersi probabilmente fatto con una bomboletta spray di qualche smacchiatore.
Ed era lì fin dal principio! Dio, come aveva potuto non accorgersene? E non aveva neppure cercato di nascondersi! Era lì, allo scoperto, in piedi contro quel muro laggiù, ad assimilare tutto quanto a bocca aperta.
Il suo progetto di portare Mordred con sé, di usarlo per mettere fine alla vita di Roland (se non lo avessero preceduto in questo le guardie del devar-toi, naturalmente), e quindi uccidere il piccolo bastardo e prendersi il prezioso piedino sinistro, tutto questo bel piano crollò in un istante. In quello successivo ne fiorì un altro, tanto semplice da essere elementare. Non devo lasciargli vedere che lo so. Un colpo, solo uno posso arrischiare, e solo perché devo rischiarlo. Poi me la do a gambe. Se è morto, bene, se no, c'è sempre la speranza che muoia di fame prima...
Poi Walter si rese conto che la sua mano si era fermata. Quattro dita si erano flesse intorno al calcio della pistola nella tasca della giacca, ma lì erano rimaste come paralizzate. Uno era molto vicino al grilletto, ma non poteva muovere neppure quello. Nemmeno fosse stato conficcato nel cemento. E ora Walter vide per la prima volta con chiarezza il filo metallico. Scaturì dalla bocca rosea di gengive del neonato seduto sulla poltroncina, attraversò la stanza, ammiccando sotto le luci, e gli si avvinghiò attorno al corpo all'altezza del torace, serrandogli le braccia contro i fianchi. Capiva che il laccio non c'era davvero... ma contemporaneamente c'era.
Non poteva muoversi.
4
Mordred non vide il laccio, forse perché non aveva mai letto La collina dei conigli. Aveva avuto però l'occasione di esplorare la mente di Susannah e ciò che vedeva ora somigliava molto al Dogan di Susannah. Solo che invece di interruttori con scritto cose come TIZIO e TEMPERATURA EMOTIVA, ne vide altri che controllavano la deambulazione di Walter (girò velocemente questo su OFF), la sua attività intellettuale e le sue motivazioni. Era sicuramente un meccanismo più complesso di quello che aveva trovato nella testa del piccolo bimbolo - lì c'erano solo pochi, semplici schemi, nodi elementari - ma pur sempre ordinaria amministrazione.
L'unico problema era che lui era un neonato.
Un maledetto infante inchiodato a una poltrona.
E se davvero intendeva trasformare quella leccornia bipede in un affettato misto, doveva muoversi alla svelta.
5
Walter o'Dim non era tanto vecchio da cedere alla credulità, ora se ne rendeva conto - aveva sottovalutato il mostriciattolo, fidandosi troppo di come appariva e non abbastanza di quel che pur sapeva dalla sua natura - ma almeno l'età veneranda lo esonerava dalla trappola del panico totale tipica dei giovani.
Se ha intenzione di fare qualcosa di più che starsene seduto su quella poltrona a guardarmi, dovrà trasformarsi. Quando lo farà, è possibile che perda il controllo. Quella sarà la mia occasione. Non è molto, ma è la sola che mi resta.
In quel momento vide una brillante luce rossa scorrere sulla pelle del neonato dalla testa fino alla punta dei piedi. Sulla sua scia, il corpo roseo del bah-bo cominciò a scurirsi e gonfiarsi. Dai fianchi emersero le zampe da ragno. Contemporaneamente il filo metallico che gli usciva dalla bocca scomparve e Walter sentì dissolversi la morsa soffocante che lo aveva paralizzato.
Non c'è tempo di arrischiare nemmeno un solo colpo, non ora. Scappa. Scappa da lui... da questa cosa. Solo questo puoi fare. Non avresti mai dovuto venire qui. Ti sei lasciato accecare dal tuo odio per il pistolero, ma potrebbe ancora non essere troppo tardi per...
Si girò verso la botola mentre quel pensiero gli si andava formulando nella mente, e stava per posare il piede sul primo scalino quando il filo riapparve, questa volta non per cingergli le braccia intorno al busto, ma per attorcigliarglisi sulla gola, come una garrotta.
Boccheggiando in preda a conati di vomito e sparando saliva di qua e di là, con gli occhi fuori delle orbite, Walter ruotò convulsamente su se stesso. Il cappio che aveva intorno al collo si allentò. Nello stesso momento senti qualcosa di molto simile a una mano invisibile che gli scivolava sulla fronte e gli spingeva il cappuccio all'indietro. Vestiva sempre in quel modo, quando gli era possibile, in certe province a sud persino di Garlan lo conoscevano come Walter Hodji, un appellativo che significava assieme «diafano» e «cappuccio». Ma quello speciale copricapo (preso in prestito da una certa casa abbandonata nella cittadina di French Landing, Wisconsin) non gli era servito a niente, giusto?
Ho paura di essere arrivato alla fine del sentiero, pensò guardando il ragno che andava verso di lui sulle sue sette zampe, una creatura enfiata e vivace (molto più vivace del bebè, aye, e quattromila volte più brutta) con quella bolla aliena di testa umanoide che spuntava dalla curva pelosa della schiena. E sul ventre aveva la macchia rossa che coloriva il tallone del neonato. Ora era a forma di clessidra, come quella della vedova nera femmina, e allora capì che quello era il marchio che gli sarebbe servito. Uccidere il neonato e amputargli il piede probabilmente non gli sarebbe servito affatto. Aveva sbagliato tutto.
Il ragno si sollevò su quattro zampe nere. Le tre zampe superiori palpeggiarono i jeans di Walter producendo un orribile, ruvido fruscio. Gli occhi sporgenti lo guardavano con la spenta curiosità dell'intruso che già aveva immaginato fin troppo bene.
Oh sì, mi sa che questa per te è proprio la fine del sentiero. Enorme dentro la testa. Un rimbombo come di parole da un altoparlante. Ma era quello che tu avevi in mente per me, o sbaglio?
No! Almeno non subito...
E dai! «Non imbrogliare un imbroglione», come direbbe Susannah. Dunque io ora farò un piccolo favore a quello che tu chiami il mio Padre Bianco. Può darsi che tu non sia stato il suo peggior nemico, Walter Padick (come ti chiamavano quando hai cominciato, in quel tempo che fu), ma sei stato il più vecchio, te lo concedo. E adesso io ti tolgo di mezzo.
Walter non si era reso conto di essere rimasto appeso a un sottile filo di speranza di fuga anche quando quell'essere spaventoso gli fu davanti, ritto sulle zampe posteriori, a fissarlo con quell'indolente avidità e la bava alla bocca, finché non ebbe udito per la prima volta in mille anni il nome a cui rispondeva una volta un bambino in una fattoria di Delain: Walter Padick. Walter, figlio di Sam il Mugnaio della Baronia di Eastar'd. Quello che a tredici anni era scappato, era stato violentato nel culo un anno dopo da un altro vagabondo e aveva lo stesso resistito alla tentazione di tornare a casa con la coda tra le gambe. Aveva invece proseguito verso il suo destino.
Walter Padick.
Al suono di quella voce, l'uomo che si era fatto chiamare Marten e poi Richard Fannin e Randall Flagg (tra moltissimi altri nomi), abbandonò ogni speranza salvo quella di morire bene.
Ho fame, Mordred ha tanta fame, ripeteva implacabile la voce al centro della testa di Walter, una voce che gli giungeva lungo il laccio della volontà del piccolo re. Ma voglio mangiare come si deve, cominciando con l'antipasto. I tuoi occhi, penso. Dammeli.
Walter lottò valorosamente, ma senza trovare neppure una parvenza di successo. Il filo era troppo forte. Vide le proprie mani alzarsi a livello del volto. Vide le dita piegarsi come uncini. Sollevarono le palpebre come tapparelle, poi s'infilarono nelle orbite da sopra i bulbi oculari. Udì il rumore che fecero gli occhi quando vennero strappati dai tendini che ne garantivano il movimento e dai nervi ottici che trasmettevano i loro meravigliosi messaggi. Il rumore che determinò la fine della sua vista fu sordo e liquido. La testa gli si riempì di vividi lampi rossi, poi fluirono prepotenti le tenebre per sempre. Nel caso di Walter, sempre non sarebbe stato un tempo molto lungo, ma se il tempo è una percezione soggettiva (e i più fra noi sanno che è così), allora per lui fu senz'altro troppo lungo.
Dammeli, ti dico! Basta scastagnare e cincischiare! Ho fame!
Walter o'Dim, colui che da Diafano era diventato Buio, girò le mani all'ingiù e lasciò cadere gli occhi. Precipitarono scodinzolando, simili a grossi girini. Il ragno ne acchiappò uno in volo. L'altro finì sul pavimento dove una zampa sorprendentemente agile lo raccolse per infilarlo nella bocca del ragno. Mordred lo fece scoppiare come un acino d'uva ma non lo inghiottì, preferendo il piacere del lento scivolare nella gola di quella squisita massa vischiosa. Fantastico.
Ora la lingua, per piacere.
Ubbidiente, Walter se la strinse nella mano e tirò, ma riuscì a staccarla solo in parte. All'estremità era troppo scivolosa. Avrebbe pianto di dolore e frustrazione se le orbite sanguinanti private degli occhi avessero potuto produrre lacrime.
Cercò di afferrarsi la lingua di nuovo, ma il ragno era troppo ottenebrato dalla voracità per poter aspettare.
Chinati! Sporgi la lingua come faresti sulla fica della tua donna. Presto, per l'amore di tuo padre! Mordred ha fame!
Walter, ancora troppo cosciente di quanto gli stava accadendo, lottò contro questo nuovo orrore non meno invano della volta precedente. Si chinò con le mani sulle cosce e la lingua sanguinante che gli sporgeva storta dalle labbra, mal sostenuta dai muscoli strappati in fondo alla bocca. Sentì di nuovo il fruscio ruvido delle zampe anteriori di Mordred che gli grattavano la tela dei jeans. Le fauci pelose della bestia si chiusero sulla lingua di Walter e la succhiarono come un lecca-lecca per uno o due momenti di beatitudine, poi la strapparono con un unico, potente strattone. Walter, ora privato della parola oltre che della vista, mandò un urlo gonfio di dolore e cadde in avanti, rotolando avanti e indietro sulle piastrelle con le mani schiacciate sul volto distorto.
Mordred morsicò la lingua che aveva nella bocca. Il sangue delizioso che ne sprizzò gli cancellò per qualche secondo ogni pensiero. Intanto Walter era rotolato su un fianco e cercava a tentoni la botola, spinto da una voce interiore che continuava a strillargli di non arrendersi e di cercare ancora di sfuggire al mostro che lo stava divorando vivo.
Con il sapore del sangue in bocca, si spense in Mordred il piacere dei preamboli. La sua percezione si ridusse al nucleo centrale, che era costituito principalmente da appetito. Balzò su Randall Flagg, Walter o'Dim, Walter Padick che fu. Ci furono altre grida, ma poche. Poi del vecchio nemico di Roland non restò niente.
6
Era stato quasi immortale (un'espressione idiota come «ben preciso») e costituì un pasto leggendario. Dopo essersi così ben rimpinzato, il primo istinto di Mordred, forte ma non insormontabile, fu di vomitare. Lo dominò e altrettanto fece con quello successivo, che fu ancora più forte: ritrasformarsi in neonato e dormire.
Se doveva cercare la porta di cui gli aveva parlato Walter, il momento migliore era adesso e nella forma che gli avrebbe consentito di muoversi con grande celerità: la forma del ragno. Così, superata la carcassa svuotata senza degnarla di uno sguardo, Mordred scese veloce per le scale della botola fino al corridoio sottostante. Il tunnel era pervaso da un forte odore alcalino e sembrava scavato nel fondo roccioso del deserto.
Tutte le conoscenze di Walter, almeno millecinquecento anni di nozioni, vociarono nel suo cervello.
Il suo percorso portò al vano di un ascensore. Quando una zampa irsuta schiacciò il bottone della salita, ottenne in cambio solo un ronzio stanco dal cavedio e da dietro la pulsantiera uscì un odore come di stringhe da scarpe bruciate. Allora Mordred si arrampicò per la parete della cabina, spinse lo sportello della manutenzione e s'infilò nel pertugio. Che dovesse fare uno sforzo non lo sorprese: ora era più grosso.
Si arrampicò per il cavo
(ragno ragnetto che scala il rubinetto)
finché giunse alla porta attraverso la quale, glielo dicevano i sensi, Walter era salito in ascensore per il suo ultimo viaggio. Venti minuti dopo (ancora ben corroborato da tutto quel sangue meraviglioso, sangue a tini, gli sembrava), arrivò a un bivio. Avrebbe potuto rappresentare una difficoltà per quell'infante che per un certo verso era ancora, ma in quel punto all'odore di Walter si mescolava quello degli altri e Mordred prese da quella parte, seguendo ora Roland e il suo ka-tet e non più l'itinerario percorso dal mago. Walter doveva averli seguiti per un po', prima di tornare indietro per andare a cercare lui. E trovare il suo destino.
Qualche tempo dopo si trovò al cospetto di una porta che, invece che da parole, era contrassegnata da un sigul che interpretò senza fatica:
Si chiese se aprirla ora o aspettare. L'impazienza infantile lo spingeva a procedere, la prudenza crescente a desistere. Si era rifocillato a dovere e al momento non aveva bisogno di nutrirsi ancora, specialmente se avesse assunto di nuovo le sembianze umane per un po'. Inoltre Roland e i suoi amici potevano essere ancora al di là di quella soglia. Se dunque, vedendolo, avessero estratto le armi? La loro velocità era infernale e le armi da fuoco erano in grado di ucciderlo.
Poteva aspettare; non avvertiva l'impellenza del bisogno al di là della smania del bambino che vuole tutto e lo vuole ora. Non pativa certamente l'avida intensità dell'odio di Walter. I suoi sentimenti erano molto complessi, venati di tristezza e solitudine e - sì, avrebbe fatto bene ad ammetterlo - amore. Mordred provava il desiderio di gustare per un po' quella malinconia. Avrebbe trovato cibo in abbondanza dall'altra parte di quella porta, ne era sicuro, dunque avrebbe mangiato. E sarebbe cresciuto. E avrebbe vegliato. Avrebbe spiato suo padre e la sua sorella-madre e i suoi ka-fratelli, Eddie e Jake. Li avrebbe spiati quando si fossero accampati per la notte e avessero acceso i loro fuochi e formato il loro circolo intorno alle fiamme. Li avrebbe osservati dal suo posto che era fuori. Forse avrebbero avvertito la sua presenza e nel buio si sarebbero sentiti a disagio, domandandosi che cosa c'era là fuori.
Si avvicinò alla porta, si alzò davanti a essa e la tastò per esaminarla meglio. Peccato che non ci fosse uno spioncino. E probabilmente non c'era rischio a passare subito. Che cosa aveva detto Walter? Che il ka-tet di Roland aveva intenzione di liberare i Frangitori, qualunque cosa fossero (nella mente di Walter questa nozione c'era, ma Mordred non si era curato di cercarla).
Dove usciranno troveranno di che essere occupati... potrebbero ricevere un'accoglienza fin troppo calorosa!
E se Roland e i suoi amici fossero stati uccisi? Se fossero caduti in un'imboscata? Mordred riteneva che, in quel caso lo avrebbe saputo. Lo avrebbe percepito nella mente come un vettoremoto.
A ogni modo avrebbe aspettato un po' prima di attraversare la soglia di quella porta con il sigul del nembo e la folgore. E quando fosse stato di là? Ah, ma li avrebbe trovati! E origliato il loro conciliabolo. E li avrebbe spiati, da svegli e addormentati. Soprattutto, avrebbe tenuto d'occhio quello che Walter aveva chiamato il suo Padre Bianco. Il suo solo vero padre ormai, se Walter aveva detto il vero sulla follia del Re Rosso.
E adesso?
Adesso, per un po', posso anche dormire.
Il ragno s'arrampicò rapido per il muro di quella stanza, che era piena di grandi oggetti appesi, e tessé una tela. Ma fu il neonato - nudo e ora cresciuto alle dimensioni di un bimbo di un anno - a dormire in essa, la testa all'ingiù, sospesa nel vuoto e irraggiungibile per qualunque predatore fosse venuto a cacciare da quelle parti.
4
La porta di Rombo di Tuono
1
Quando i quattro viandanti si destarono dal loro sonno (Roland per primo e precisamente dopo sei ore), c'erano altri strozzini impilati su un vassoio protetto da una tovaglietta e anche altre bevande. Del robot domestico, invece, non c'era traccia.
«Va bene, basta così», concluse Roland, dopo avere chiamato Nigel per la terza volta. «Ci aveva detto che era agli sgoccioli; a quanto pare l'ultima goccia è caduta mentre noi dormivamo.»
«Stava facendo una cosa che non voleva fare», commentò Jake. Era pallido e aveva la faccia un po' gonfia. Per aver dormito di un sonno troppo pesante, fu il primo pensiero di Roland, e subito si diede dello stupido. Il ragazzo aveva pianto per Père Callahan.
«Che cosa?» domandò Eddie, caricandosi il fagotto sulla spalla e quindi issandosi Susannah contro l'anca. «Per chi? E perché?»
«Non lo so», ammise Jake. «Non ha voluto che io lo sapessi e non mi è sembrato giusto spiare. So che era solo un robot, ma con quel bell'accento britannico e tutto il resto, si presentava come qualcosa di più.»
«È uno scrupolo che forse faresti bene a superare», lo rimproverò Roland con tutta la dolcezza di cui era capace.
«Quanto ti peso, dolcezza?» chiese allegramente Susannah a Eddie. «O forse farei meglio a domandarti quanto ti manca quella cara, vecchia sedia a rotelle. Per non parlare dell'imbracatura a spalla.»
«Suze, hai detestato quell'imbracatura dal momento stesso in cui l'hai vista e lo sappiamo tutti e due.»
«Non parlavo di quella e lo sai.»
Roland era sempre affascinato dal modo in cui Detta s'introduceva di soppiatto nella voce di Susannah, o, peggio ancora, nei lineamenti del suoi viso. Susannah dal canto suo sembrava non accorgersi di quelle incursioni, né le notò ora suo marito.
«Sono pronto a trasportarti in capo al mondo», dichiarò con passione Eddie e le baciò la punta del naso. «Basta che non mi metti su altri quattro o cinque chili, s'intende. Perché in quel caso potrei doverti abbandonare per andare a cercarmi una signora un po' più leggera.»
Lei gli diede una gomitata, senza troppa delicatezza, quindi si rivolse a Roland. «Qua sotto il posto è vastissimo. Come facciamo a trovare la porta per Rombo di Tuono?»
Roland scosse la testa. Non lo sapeva.
«E tu, Cisco?» chiese Eddie a Jake. «Tu sei quello con il tocco. Puoi usarlo per trovare la porta che ci serve?»
«Se sapessi come cominciare...» si schermì Jake. «Ma non lo so.»
E con questo, tornarono tutti e tre a guardare Roland, anzi, facciamo quattro, perché lo stava fissando anche quel birbaccione di bimbolo. Eddie avrebbe cercato di alleggerire il disagio di quello sguardo collettivo con qualche battuta e in effetti Roland si sforzò di trovarne qualcuna. Qualcosa sui troppi occhi che facevano macerare la torta... no. Il modo di dire che aveva sentito da Susannah riguardava cuochi e minestre. «Bazzicheremo un po' in giro», disse alla fine, «come fanno i cani da caccia quando hanno perso la traccia, e vediamo se troviamo qualcosa.»
«Magari un'altra sedia a rotelle per me», scherzò Susannah. «Questo ragazzaccio dalla pelle bianca ne approfitta per palpeggiare tutta la mia purezza!»
Eddie la guardò con un'espressione innocente. «Se fossi così intatta, tesoro, non avresti questa crepa proprio qui in mezzo.»
2
Fu infine Oy a risolvere la situazione, ma non prima che fossero tornati in cucina. Gli umani si aggiravano con un'aria smarrita che stava cominciando a innervosire Jake, quando Oy si mise ad abbaiare il suo nome: «Eik! Eik-Eik!»
Raggiunsero il bimbolo che si era fermato davanti a una porta tenuta aperta con una zeppa e con la scritta LIVELLO C. Oy s'inoltrò di qualche metro per il corridoio, poi si girò a guardare con gli occhi scintillanti. Quando vide che non lo seguivano, manifestò sonoramente il suo disappunto.
«Che cosa ne pensate?» chiese Roland. «Dobbiamo andargli dietro?»
«Sì», rispose Jake.
«Che cosa ha fiutato?» domandò Eddie. «Qualcuno lo sa?»
«Forse qualche odore del Dogan», azzardò Jake. «Quello vero, sull'altra sponda del fiume Whye. Dove io e Oy avevamo ascoltato il papà di Ben Slightman che parlava con... lo sapete, il robot.»
«Jake?» si preoccupò Eddie. «Tutto bene, figliolo?»
«Sì», lo rassicurò Jake, anche se aveva appena passato un momentaccio nel ricordare come aveva urlato il padre di Benny. Apparentemente stanco delle lagnanze di Slightman, Andy, il Robot Messaggero, gli aveva pigiato o pizzicato qualcosa nel gomito, probabilmente un nervo, e Slightman aveva «starnazzato come un gufo», avrebbe forse detto Roland (quasi certamente con almeno una punta di disprezzo). Slightman il Giovane era ormai estraneo a quelle cose, naturalmente, ed era stato quel pensiero - un ragazzo un tempo così esuberante e ora freddo come l'argilla in riva al fiume a chiudere momentaneamente la bocca al figlio di Elmer. Morire era una necessità, sì, e Jake si augurava che, quando fosse venuta la sua ora, il suo trapasso potesse essere almeno moderatamente sereno. Non si poteva dire che in quegli ultimi tempi non gli fossero mancati corsi di addestramento sulle modalità specifiche. Era il pensiero di tutto quel tempo tombale a gelargli il sangue nelle vene. Quel timeout interminabile. Quello starsene-immobili-e-continuare-a-essere-morti.
Nel Dogan sull'altra riva del Whye l'odore di Andy saturava ogni cosa, freddo ma oleoso e caratteristico, perché il robot e Slightman il Vecchio si erano incontrati lì molte volte prima che i Lupi fossero accolti e affrontati da Roland e il suo minuscolo esercito. Quest'altro odore non era proprio lo stesso, ma era interessante. Era in ogni caso l'unico familiare in cui Oy si fosse imbattuto in quel momento e voleva seguirlo.
«Un momento, un momento», esclamò Eddie. «Vedo qualcosa che ci serve.»
Posò Susannah, attraversò la cucina e tornò spingendo un carrello di metallo usato probabilmente per il trasporto di stoviglie o grossi utensili.
«Salta in sella, bimba bella», disse Eddie aiutando Susannah a montarci sopra.
Lei trovò una posizione abbastanza comoda, afferrando i bordi, ma con un'espressione dubbiosa. «E quando troveremo una rampa di scale? Come la mettiamo allora, zuccherino?»
«Vedrai che zuccherino ti spianerà la via», rispose Eddie e spinse il carrello nel corridoio. «Forza, Oy! Muovetevi voi husky!»
«Oy! Husk!» Il bimbolo s'avviò di buon passo, abbassando di tanto in tanto la testa per annusare, ma soprattutto per un eccesso di zelo. La pista era troppo fresca e viva perché avesse di che preoccuparsi. Quello che aveva trovato, era l'odore dei Lupi. Dopo un'ora di cammino, passarono davanti a una porta grande come quella di un hangar con la scritta AI CAVALLI. Più avanti ce n'era un'altra con la scritta ZONA DI RACCOLTA e SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. (Che per parte del loro tragitto fossero seguiti da Walter o'Dim era un fatto che nessuno di loro sospettava, neppure Jake, a dispetto della grande sensibilità del suo tocco. Almeno nei suoi confronti il «cappello pensante» dell'uomo incappucciato funzionava più che bene. Dopo essersi accertato della direzione che aveva preso il bimbolo, Walter era tornato indietro per confabulare con Mordred: un errore, era emerso, ma con la consolazione che non ne avrebbe mai più commesso un altro.)
Oy si sedette davanti alla porta chiusa, che era di quelle che sventagliano in entrambe i sensi, con la coda sottile a contatto delle zampe posteriori. «Eik, apri-apri! Apri, Eik!» abbaiò.
«Sì, sì», rispose Jake, «fra un attimo. Porta pazienza.»
«Zona di raccolta», lesse a voce alta Eddie. «Moderatamente promettente, direi.»
Stava ancora spingendo Susannah sul carrello d'acciaio, avendo superato senza troppo difficoltà l'unica rampa di scale (di pochi gradini) che avevano incontrato. Susannah era scesa per prima trascinandosi sulle natiche, come soleva fare normalmente, mentre Roland e Eddie trasportavano il carrello dietro di lei. Jake si era messo tra la donna e gli uomini, con la pistola di Eddie alzata e la lunga canna posata contro la spalla sinistra, nella posizione conosciuta come «la guardia».
Ora Roland estrasse la propria e se la posò contro la spalla destra, poi spinse la porta. Varcò la soglia con la testa leggermente incassata, pronto a tuffarsi dall'una o dall'altra parte o a spiccare un balzo all'indietro, se così avesse richiesto la situazione.
La situazione non richiese nulla. Se fosse entrato per primo, Eddie avrebbe forse creduto (magari per non più di un istante) di essere attaccato da Lupi volanti simili alle scimmie volanti del Mago di Oz. Roland viceversa non era particolarmente dotato di immaginazione e sebbene la gran parte dei tubi al neon appesi al soffitto di quell'enorme capannone fossero spenti, non perse né tempo né adrenalina scambiando gli oggetti sospesi per qualcosa di diverso da ciò che erano in realtà: robot razziatori guasti in attesa di riparazione.
«Entrate», esortò gli altri e le sue parole gli tornarono indietro sull'onda di un'eco. Nelle ombre del soffitto ci fu un frullare d'ali. Rondini, o forse ruggii da stalla che avevano trovato un pertugio per infilarsi nel capannone. «Credo che sia tutto sotto controllo.»
Entrarono anche gli altri e si fermarono ammutoliti dalla meraviglia. Solo l'amico quadrupede di Jake non restò impressionato. Oy approfittava della pausa per pulirsi il pelo, prima a sinistra e poi a destra. Finalmente Susannah, ancora seduta sul carrello, ritrovò il dono della parola: «Ne avevo viste di belle, credetemi, ma mai niente del genere».
Lo stesso valeva per gli altri. Lo stanzone era gremito di Lupi che sembravano sospesi in volo. Alcuni indossavano le mantelle e i cappucci verdi; altri pendevano denudati di indumenti e rivestiti solo delle loro corazze d'acciaio. Alcuni erano privi di testa, alcuni mancanti delle braccia, altri erano mutilati negli arti inferiori. Le loro grigie facce metalliche sembravano ringhiare o sogghignare, a seconda di come venivano colpite dalla luce. Sul pavimento c'erano mucchi di mantelle verdi e guanti di ferro. E a una quarantina di metri da loro (sembrava che il capannone si estendesse per almeno duecento metri) c'era un cavallo grigio solitario, posato sulla schiena con le zampe dritte all'insù. Era senza testa. Dal collo usciva un groviglio di cavi gialli, verdi e rossi.
Procedettero lentamente dietro Oy, che sgambettava tranquillo nel capannone. Il rumore delle ruote del carrello era forte là dentro e l'eco ne restituiva un rombo sinistro. Susannah continuava a guardare su. Dapprima - e solo perché restava ora pochissima luce in un posto che un tempo doveva essere abbagliante - pensò che i Lupi fossero sospesi nell'aria grazie a qualche congegno antigravitazionale. Poi giunsero in un punto dove quasi tutte le lampade erano ancora in funzione e vide i cavi di sostegno.
«Qui dev'essere dove li riparavano», osservò. «Se c'era ancora qualcuno capace di farlo, si capisce.»
«E io credo che laggiù è dove li alimentavano», disse Eddie puntando il dito. Contro la parete di fondo, che cominciavano solo adesso a vedere, distintamente, erano allineati un gran numero di scomparti. Alcuni di essi erano occupati da Lupi immobili. Altri erano vuoti e in essi si vedevano le prese.
Jake scoppiò improvvisamente a ridere.
«Cosa?» volle sapere Susannah. «Che cosa c'è?»
«Niente», rispose lui. «È solo che...» Poi le sue risa echeggiarono di nuovo, favolosamente giovanili nella tetraggine di quello stanzone. «È solo che sembrano pendolari alla Penn Station, allineati ai telefoni pubblici a chiamare casa o l'ufficio.»
Eddie e Susannah rifletterono per un momento, poi risero con lui. Dunque, pensò Roland, la somiglianza notata da Jake c'era davvero. Dopo tutto quello che avevano passato, non se ne stupì. Lo rallegrò invece sentir ridere il ragazzo. Era giusto che Jake piangesse la morte del Père, che era stato suo amico, ma era bello che non avesse perso la capacità di ridere. Molto bello davvero.
3
La porta che cercavano era a sinistra degli scomparti di ricarica. Riconobbero subito il sigul della nuvola con il fulmine, identica a quella del messaggio che «R.F.» aveva lasciato loro su un foglio dell'Oz Daily Buzz. Ma la porta era molto diversa da quella che avevano incontrato fino ad allora; a parte il nembo e la folgore, per il resto era solo funzionale. Sebbene fosse dipinta di verde, si vedeva che era di acciaio, non di legno-ferro o del più pesante legno fantasma. Lo stipite era grigio, anch'esso d'acciaio, con grossi cavi rivestiti di materiale isolante che uscivano da entrambi i lati. Entravano in una delle pareti. Da dietro quella parete giungeva un brontolio irregolare che a Eddie parve di riconoscere.
«Roland», disse a voce bassa. «Ricordi il portale del Vettore che trovammo quando eravamo ancora all'inizio? Ancora prima che Jake si unisse alla nostra allegra brigata?»
Roland annuì. «Dove uccidemmo i Piccoli Guardiani. La scorta di Shardik. Quel che ne restava.»
Eddie confermò con un cenno della testa. «Io avvicinai l'orecchio alla porta per ascoltare. Tutto è dimenticato nelle sale di pietra dei defunti, pensai. Queste sono le sale dei defunti, dove i ragni tessono e i grandi circuiti si ammutoliscono a uno a uno.»
Per la verità aveva pronunciato quelle parole a voce alta, ma Roland non si meravigliava che Eddie non ricordasse d'averlo fatto; in quel momento era ipnotizzato, del tutto o quasi.
«Allora noi eravamo all'esterno», continuò Eddie. «Ora siamo dentro.» Indicò la porta per Rombo di Tuono, poi con un dito tracciò il percorso dei grossi cavi. «Le macchine che inviano corrente qui dentro non mi sembrano molto ben messe. Se vogliamo usare questa porta, penso che ci convenga sbrigarci. Il sistema di alimentazione potrebbe guastarsi da un momento all'altro. E per sempre. E noi?»
«Dovremmo chiamare il soccorso stradale», commentò distratta Susannah.
«Non credo che servirebbe. Saremmo fritti... tu che ne dici, Roland?»
«Più che fritti, tostati. Guarda le stanze della rovina. Anche questo avevi detto. Ti ricordi?»
«Di averlo detto? A voce alta?»
«Aye.» Roland li condusse alla porta. Toccò la maniglia e ritrasse le dita.
«Scotta?» chiese Jake.
Roland scosse la testa.
«Elettrificata?»
Il pistolero scosse la testa di nuovo.
«E allora avanti, coraggio», lo incalzò Eddie. «Balliamo.»
Serrarono i ranghi alle spalle di Roland. Eddie si era caricato di nuovo Susannah sull'anca e Jake aveva preso in braccio Oy. Il bimbolo ansimava con il suo solito sorriso gaio e dentro i cerchi dorati gli occhi gli brillavano come onice levigata.
«Che cosa facciamo...» Se è chiusa a chiave era il resto della frase che Jake stava per pronunciare, ma Roland lo precedette ruotando il pomolo con la mano destra (nella sinistra stringeva la pistola) e tirò. Dietro il muro, il rumore della macchina salì di registro raggiungendo un tono che sapeva di disperazione. A Jake parve di sentire un odore nuovo, forse di isolante che si bruciava. Stava per esortare se stesso a tenere a bada l'immaginazione, quando sopra di loro entrarono in funzione alcuni ventilatori. Trasalirono tutti, perché fecero un baccano più assordante di uno stormo di caccia pronti a decollare in un film sulla seconda guerra mondiale. Susannah si portò addirittura la mano alla testa, come per proteggersi da una pioggia di oggetti.
«Venite», sbottò Roland. «Muoviamoci.» Passò oltre senza guardarsi indietro. Nel breve istante in cui fu attraverso la soglia, però, parve spezzato in due. Al di là del pistolero, Jake scorgeva una stanza grande e immersa nella penombra, molto più grande della Zona di Raccolta. E un intrico di linee argentate che sembravano fasci di pura luce.
«Forza, Jake», disse Susannah. «Tocca a te.»
Jake respirò a fondo e passò di là. Non ci fu la sensazione di un incresparsi, come era accaduto nella Grotta delle Voci, e non ci fu scampanio. Nessuna sensazione di contezza, neppure per un momento. Ci fu invece quella orribile di essere rovesciato da dentro all'infuori e un attacco violentissimo di nausea come non aveva mai sperimentato in vita sua. Gli cedettero le gambe. Un attimo dopo era in ginocchio. Lasciò cadere Oy, senza nemmeno accorgersene. Fu scosso da un primo conato. Roland era carponi al suo fianco e faceva lo stesso. Intorno a loro vibravano uno sferragliare ritmico e costante, l'insistente din-din-din-din di una campanella e una sonora voce amplificata.
Jake girò la testa con l'intenzione di dire e Roland che ora capiva perché spedivano dei robot razziatori attraverso quella dannata porta, ma vomitò di nuovo. I resti del suo ultimo pasto scivolarono nelle crepe del cemento.
A un tratto Susannah si mise a gridare: «No! No!» con una voce piena di sgomento. «Mettimi giù! Eddie, mettimi giù prima che...» La sua voce fu interrotta da versacci di rigurgito. Eddie riuscì a posarla sul cemento crepato prima di girare la testa e unirsi a sua volta al Coro dei Vomitanti.
Oy stramazzò su un fianco, rigettò emettendo suoni rauchi, poi si rimise in piedi. Sembrava stordito e disorientato... o forse Jake stava solo attribuendo al bimbolo le proprie sensazioni.
Quando la nausea cominciava a placarsi, udì dei passi pesanti. Tre uomini correvano verso di loro, tutti in jeans, camicia blu di batista e strane calzature dall'aspetto casereccio. Uno dei tre, un uomo anziano con una matassa di scompigliati capelli bianchi sulla testa, precedeva gli altri due. Tutti e tre tenevano le mani alzate.
«Pistoleri!» proruppe l'uomo con i capelli bianchi. «Siete pistoleri? Se lo siete, non sparate! Siamo dalla vostra parte!»
Roland, che non sembrava in condizioni di sparare a nessuno (non che vorrei metterlo alla prova, rifletté Jake), cercò di rialzarsi, quasi ci riuscì, poi ricadde su un ginocchio e fece un altro verso strozzato. L'uomo con i capelli bianchi lo afferrò per un polso e lo issò in piedi senza complimenti.
«È un malore insopportabile», disse il vecchio, «nessuno lo sa meglio di me. Per fortuna passa subito. Dovete venir via con noi immediatamente. So quanta poca voglia avete, ma, vedete, nello studio del ki'-dam c'è un allarme e...»
Si fermò. I suoi occhi, azzurri quasi come quelli di Roland, si andavano dilatando. Nonostante la luce scarsa Jake vide impallidire il volto del vecchio. I suoi compagni li avevano raggiunti, ma lui non se n'era nemmeno accorto. Era Jake Chambers che stava guardando.
«Bobby?» disse con un filo stentato di voce. «Dio mio, sei Bobby Garfield?»
5
Steek-Tete
1
I compagni dell'uomo canuto erano di gran lunga più giovani di lui (Roland giudicò che uno dovesse essere poco più che adolescente), e sembravano entrambi terrorizzati. Timorosi d'essere uccisi per sbaglio, questo sì, ed era il motivo per cui si erano precipitati fuori del buio a braccia levate, ma c'era anche qualcos'altro, perché ormai doveva essere chiaro che non stavano per essere assassinati senza motivo.
Il vecchio ebbe un sussulto, quasi uno spasmo, con il quale si ritrasse da un momento di privata astrazione. «Ma certo che non sei Bobby», mormorò. «Tanto per cominciare i capelli sono del colore sbagliato e poi...»
«Ted, dobbiamo uscire da qui», protestò ansioso il più giovane dei tre. «E intendo seduta stante.»
«Sì», annuì il vecchio, ma il suo sguardo rimase su Jake. Si portò una mano agli occhi (a Eddie fece venire in mente un telepatico da luna park che si prepara al suo fantastico numero di lettura del pensiero), poi la riabbassò. «Sì, naturalmente.» Guardò Roland. «Tu sei il dinh? Roland di Gilead? Roland dell'Eld?»
«Sì, io...» cominciò Roland, poi si chinò a vomitare di nuovo. Non gli uscì niente dalla gola oltre a una lunga bava argentata; aveva già perso la sua razione di minestra e sandwich di Nigel. Levò quindi un pugno un po' tremante e si toccò la fronte nel segno del saluto. «Sì. Tu mi conosci e io non conosco te, sai.»
«Questo non è importante», ribatté l'uomo con i capelli bianchi. «Verrai con noi? Tu e il tuo ka-tet?»
«Senz'altro.»
Dietro di lui Eddie vomitò di nuovo. «Ma porco-schifo!» gracchiò. «E io pensavo che viaggiare su un Greyhound era brutto! Al confronto di questa porta, l'autobus è... è...»
«Come una cabina di prima classe sulla Queen Mary», finì per lui Susannah quasi senza voce.
«Andiamo!» insisté il più giovane del terzetto. «Se la Donnola è sulle vostre tracce con la sua squadra di taheen, sarà qui entro cinque minuti! Quella è una bestiaccia che sa far andare le gambe!»
«Sì», fece eco l'uomo con i capelli bianchi. «Dobbiamo proprio andare, signor Deschain.»
«Fai strada», rispose Roland. «E noi ti seguiamo.»
2
Non erano finiti in una stazione, bensì in una sorta di colossale scalo merci coperto. Le linee argentee che aveva visto Jake erano incroci di binari, forse una settantina. Su un paio di essi, viaggiavano avanti e indietro tozze motrici automatiche occupate in manovre diventate obsolete da secoli. Una spingeva un carro a pianale carico di putrelle arrugginite. Dall'altra partì l'invocazione di una voce sintetizzata: «UNA CAMKA-A ALL'USCITA 9, PER PIACERE. UNA CAMKA ALLA 9, PREGO».
Rimbalzare sull'anca di Eddie fece tornare la nausea a Susannah. L'ansiosa premura dell'uomo con i capelli bianchi, però, l'aveva contagiata come un raffreddore. Inoltre ora sapeva che cos'erano i taheen: creature mostruose con il corpo di essere umano e la testa di uccello o mammifero. Gli ricordavano le creature di quel dipinto di Bosch intitolato Il giardino delle delizie.
«Potrei dover vomitare di nuovo, zolletta», annunciò. «Se lo faccio, guai a te se rallenti.»
Eddie rispose con un grugnito che Susannah interpretò come un'affermazione. Vedeva il sudore che gli sgorgava dalla pelle chiara e provò compassione per lui. Stava male anche Eddie. Dunque ora sapeva che effetto faceva usare un congegno scientifico di teletrasporto che evidentemente non funzionava più molto bene. E si chiese se sarebbe mai riuscita a obbligarsi a usarne un altro.
Jake guardò in alto e vide un tetto di un milione di pannelli di forme e dimensioni diverse; era come osservare un mosaico di piccoli tasselli dipinto di un uniforme grigio scuro. Poi attraverso una sezione volò un uccello e si rese conto che quelle non erano tessere o piastrelle, bensì lastre di vetro, alcune delle quali rotte. Il grigio scuro era evidentemente come appariva il mondo esterno visto da Rombo di Tuono. Come una eclissi costante, pensò e rabbrividì. Accanto a lui Oy emise una serie di versi rochi, dopodiché riprese a trottare scuotendo il capo.
3
Passarono oltre un ammasso di macchinari spiaggiati, forse generatori, quindi s'inoltrarono in un labirinto di carri ferroviari che erano molto diversi dai vagoni trainati da Blaine il Mono. Nel caos generale, alcuni ricordarono a Susannah le carrozze dei convogli pendolari che poteva aver visto alla Grand Central Station nel suo quando del 1964. Come a confermare la sua impressione, notò la scritta BAR CAR sulla fiancata di un vagone. Ce n'erano tuttavia altri che sembravano molto più vecchi, carrozze di lamiere rivettate invece che di paratie cromate, che somigliavano piuttosto a quelle per passeggeri di qualche vecchio film western, o di telefilm come Maverick. Davanti a una di quelle carrozze c'era un robot, dal cui collo germogliava un mazzo disordinato di cavi. Sotto il braccio reggeva la testa, sulla quale c'era un cappello con un distintivo e la scritta CONTROLLORE CLASSE A.
All'inizio Susannah cercò di tenere il conto di tutte le volte che svoltavano a destra e a sinistra in quel dedalo di vagoni, poi lasciò perdere ritenendo il suo sforzo inutile. Emersero finalmente a una cinquantina di metri da una baracca di assi di legno, sull'architrave del cui ingresso si leggeva la scritta BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI. Nello spazio antistante, sul fondo di cemento percorso dalle crepe, erano sparsi carrelli abbandonati e cataste di casse. C'erano anche due Lupi morti. No, pensò Susannah, facciamo pure tre. Il terzo era appoggiato al muro nelle ombre più dense intorno all'angolo di BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI.
«Presto», li esortò l'uomo con la matassa di capelli bianchi, «siamo quasi arrivati. Ma dobbiamo fare in fretta, perché se ci raggiungono i taheen della Casa Crepacuore, vi uccideranno.»
«Uccideranno anche noi», tenne a precisare il più giovane del terzetto. Si tolse una ciocca di capelli dagli occhi. «A parte Ted. Ted è l'unico di noi a essere indispensabile. È solo troppo modesto per dirlo.»
Dietro BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI c'era (abbastanza prevedibilmente, rifletté Susannah) UFFICIO SPEDIZIONI. L'uomo dai capelli bianchi provò la porta. Era chiusa a chiave. Ne parve più contento che no. «Dinky?» chiamò.
Era evidentemente il più giovane dei tre. Afferrò la maniglia e Susannah sentì il rumore brusco di un meccanismo. Dinky indietreggiò. Questa volta, quando Ted provò la porta, l'aprì senza difficoltà. Entrarono in un ufficio buio diviso in due da un bancone. Su di esso c'era un avviso che fece provare una nota di nostalgia a Susannah: MUNIRSI DI NUMERO E ATTENDERE, diceva.
Quando la porta si richiuse, Dinky afferrò di nuovo il pomolo. Ci fu un altro scatto secco.
«L'hai bloccata di nuovo», osservò Jake. Il tono era d'accusa, ma sulle sue labbra c'era un sorriso e sulle guance gli stava rinascendo il colorito naturale. «Non è vero?»
«Non ora, per piacere», intervenne l'uomo canuto... Ted. «Non c'è tempo. Seguitemi.»
Sollevò una sezione del bancone e li fece passare per di lì. Dietro, nell'area ufficio, c'erano due robot che sembravano morti da tempo e tre scheletri.
«Perché continuiamo a trovare ossa?» chiese Eddie. Come Jake, anche lui si sentiva meglio e stava soltanto riflettendo a voce alta, senza veramente attendersi una risposta. Tuttavia la ottenne. Da Ted.
«Sai del Re Rosso, giovanotto? Naturalmente sì. Io credo che tempo fa abbia invaso tutta questa parte del mondo di gas velenoso. Probabilmente per capriccio. Uccidendo quasi tutti. Il buio che vedi ne è un residuo. È pazzo, naturalmente. E questo è una larga parte del problema. Per di qui.»
Li guidò oltre una porta con la scritta PRIVATO, in una stanza appartenuta presumibilmente a un papaverone del meraviglioso mondo del carico e scarico. Susannah vide che per terra c'erano delle impronte di qualche visita recente. Quasi certamente da parte di quegli stessi tre individui. C'erano una scrivania, sotto una spanna di soffice polvere, due poltrone e un divano. Dietro la scrivania c'era una finestra. La veneziana che l'aveva protetta in passato era ora crollata sul pavimento e lasciava che lo sguardo spaziasse su un panorama minaccioso, sebbene non privo di fascino. Il paesaggio dietro la stazione di Rombo di Tuono ricordò a Susannah le distese deserte sull'altra sponde del fiume Whye, ma più rocciose e avvolte in un'atmosfera più tetra.
E naturalmente il buio era maggiore.
Lì dietro i binari (su alcuni dei quali sostavano convogli in eterna attesa) partivano a raggiera come i fili di una ragnatela d'acciaio. Sopra di loro il cielo di scura ardesia sembrava imbarcarsi sotto il proprio peso, scendendo fin quasi a poterlo toccare. Tra cielo e terra l'aria era densa; Susannah si ritrovò a sforzare gli occhi per vedere qualcosa, sebbene non ci fossero né fumo né nebbia.
«Dinky», chiamò l'uomo con i capelli bianchi.
«Sì, Ted.»
«Che cosa hai lasciato da trovare al nostro amico la Donnola?»
«Un addetto alla manutenzione», rispose Dinky. «Sembrerà che abbia trovato il modo di passare per la porta di Fedic, abbia fatto scattare l'allarme e sia finito abbrustolito su uno dei binari in fondo allo scalo ferroviario. Ce ne sono ancora alcuni roventi. Si vedono spesso uccelli morti, fritti a dovere e belli croccanti, ma anche un ruggio di buone dimensioni è troppo piccolo per far scattare l'allarme. Un operaio, invece... sono sicuro che ci cascherà. La Donnola non è uno stupido, ma la scena è molto credibile.»
«Bene. Molto bene. Guardate laggiù, pistoleri.» Ted indicò loro un affilato spuntone di roccia che si ergeva all'orizzonte. Susannah lo individuò facilmente in un paesaggio buio dove tutti gli orizzonti sembravano così vicini. Non notò niente di particolare, però, solo sacche di ombre più fitte e sterili pendii franosi. «Quello è il Can Steek-Tete.»
«La Piccola Guglia», disse Roland.
«Eccellente traduzione. È lì che andiamo.»
Susannah provò un tuffo al cuore. Quella montagna, o pinnacolo che fosse, doveva essere a una decina di miglia da loro. Al limite estremo della loro visuale, in ogni caso. Eddie, Roland e i due giovani compagni di Ted non avrebbero potuto trasportarla di peso per un tratto così lungo. E comunque come sapevano di potersi fidare di quei tre sconosciuti?
D'altra parte, pensò, che alternativa abbiamo?
«Non sarà necessario trasportarti», la rassicurò Ted, «ma Stanley avrà bisogno del tuo aiuto. Ci prenderemo per mano, come si fa per una seduta spiritica. Voglio che tutti voi visualizziate quella formazione rocciosa, quando passeremo attraverso. E che teniate il nome ben presente: Steek-Tete, la Piccola Guglia.»
«Ohi ohi», esclamò Eddie. Erano davanti a un'altra porta ancora, aperta come l'anta di un armadio. Dentro c'erano appendini di fil di ferro, uno dei quali occupato da un vecchio blazer rosso. Eddie afferrò Ted per una spalla e lo costrinse a voltarsi. «Passiamo attraverso cosa? Per andare dove? Perché se questa porta è come l'ultima...»
Ted alzò lo sguardo su Eddie (dovette alzarlo, perché Eddie era più alto) e in quel mentre Susannah notò qualcosa di sorprendente e inquietante: sembrava che gli occhi di Ted gli ballassero nelle orbite. Poi si rese conto che non era propriamente così. Erano le pupille che si dilatavano e restringevano con una rapidità straordinaria. Era come se non sapessero decidersi se c'era luce o buio.
«Non dobbiamo passare attraverso nessuna porta, almeno non una di quelle che già conoscete. Ma dovete fidarvi di me, giovanotto. Ascoltate.»
Si zittirono tutti e, nel silenzio, Susannah colse il rombo di motori in avvicinamento.
«Quello è la Donnola», disse loro Ted. «Avrà con sé i suoi taheen, almeno quattro, forse anche cinque o sei. Se ci vedono qui, è quasi sicuro che per Dinky e Stanley non ci sarà salvezza. Non c'è bisogno che ci prendano, basterà che ci vedano. Stiamo rischiando la vita per voi. Questo non è un gioco e occorre che smettiate di fare domande e mi seguiate!»
«Lo faremo», promise Roland. «E penseremo alla Piccola Guglia.»
«Steek-Tete», fece eco Susannah.
«Non vi verrà di nuovo la nausea», annunciò Dinky. «Lo giuro.»
«Meno male», sospirò Jake.
«No-ale», convenne Oy.
Stanley, il secondo dei compagni di Ted, continuò a non dire nulla.
4
Era un semplice sgabuzzino, un ripostiglio da ufficio, stretto e con l'odore di chiuso. Sul vecchio blazer rosso c'era una targhetta d'ottone appuntata al taschino con le parole CAPO SPEDIZIONIERE. Stanley andò fino in fondo, davanti a un comune muro nudo. Gli appendini danzavano tintinnando e Jake doveva stare attento a dove metteva i piedi per non calpestare Oy. Aveva sempre sofferto un po' di claustrofobia e ora cominciò a sentire le dita grasse del Panico che gli attraversavano il collo, prima da una parte e poi dall'altra. Ai tintinnii degli appendini si unirono i rintocchi sommessi degli Oriza nella sacca. Sette persone e un bimbolo stretti nel ripostiglio di un ufficio abbandonato? Follia pura. Si sentiva ancora il rombo dei motori in arrivo. Quelli sotto il comando della Donnola.
«Prendiamoci per mano», mormorò Ted. «E concentriamoci.»
«Steek-Tete», ripeté Susannah, ma a Jake parve di cogliere un'inflessione di dubbio.
«Piccola Gu...» cominciò Eddie e subito si fermò. Il nudo muro in fondo al ripostiglio non c'era più. Al suo posto c'era ora una piccola radura con dei massi su un lato e un ripido pendio cosparso di cespugli sull'altro. Jake era pronto a scommettere che fosse lo Steek'Tete, e se era un modo per uscire da quell'angusta prigione, era ben lieto di vederlo.
Stanley emise un piccolo gemito di dolore o sforzo o entrambi. Aveva gli occhi chiusi e da sotto le palpebre gli scivolavano lacrime sugli zigomi.
«Ora», disse Ted. «Facci passare, Stanley.» Rivolgendosi agli altri disse: «E aiutatelo se potete! Aiutatelo, per l'amore dei vostri padri!»
Jake cercò di trattenere l'immagine della punta rocciosa che Ted aveva indicato attraverso la finestra dell'ufficio e s'incamminò, tenendo per mano Roland che lo precedeva e Susannah che lo seguiva. Avvertì un alito di aria fredda sulla pelle sudata e uscì sul pendio dello Steek-Tete di Rombo di Tuono, pensando per un attimo al signor C.S. Lewis e al fiabesco guardaroba che ti portava a Narnia.
5
Non emersero a Narnia.
Faceva freddo sul pendio della guglia e Jake cominciò presto ad avere i brividi. Quando guardò giù, non vide traccia del portale dal quale erano passati. L'aria era opaca e vi aleggiava un odore penetrante e non particolarmente gradevole, come di kerosene. C'era un'altra piccola nicchia che si apriva nel pendio (più o meno un altro ripostiglio), dal quale Ted prese delle coperte e una borraccia che conteneva un'acqua dal sapore pungente e alcalino. Jake e Roland si avvolsero ciascuno in una coperta; Eddie ne prese due per proteggere se stesso e Susannah insieme. Jake, sforzandosi di non battere i denti (una volta che avesse cominciato, non sarebbe più riuscito a fermarsi), provò invidia per il calore supplementare prodotto dall'unione dei loro corpi.
Anche Dinky era scomparso dentro una coperta, mentre sembrava che Ted e Stanley fossero insensibili al freddo.
«Guardate laggiù», disse Ted. Stava indicando la ragnatela di binari. Da lassù si vedevano il vasto tetto di vetro dello scalo ferroviario e l'attigua struttura con il tetto verde, lunga forse mezzo miglio. C'erano binari che andavano in tutte le direzioni. La stazione di Rombo di Tuono, rifletté incredulo. Dove i Lupi caricano i bambini rapiti sul treno e li spediscono a Fedic lungo il Sentiero del Vettore. E dove li riportano dopo averli guastati.
Nonostante tutte le bizzarrie del suo recente passato, gli era difficile credere che, meno di due minuti prima, fossero ancora laggiù, a sette o otto miglia di distanza. Sospettava che avessero preso tutti quanti parte all'apertura del portale, ma che fosse stato quello che si chiamava Stanley ad averlo creato. Ora lo vedeva pallido e stanco, quasi stremato. A un certo punto si levò faticosamente in piedi e Dinky (un nomignolo davvero disgraziato, nell'umile opinione di Jake) lo afferrò per un braccio per mantenerlo in equilibrio. E Stanley sembrò non accorgersene. Guardava Roland con soggezione e devozione.
E non solo, pensò Jake, e non è nemmeno paura. Qualcos'altro. Che cosa?
Alla stazione stavano sopraggiungendo due carri motorizzati con enormi ruote balloon: ATV. Dovevano essere la Donnola (chiunque fosse) e i suoi taheen.
«Come sicuramente avete intuito», spiegò loro Ted, «nell'ufficio del soprintendente del Devar-Toi c'è un allarme. L'ufficio del direttore del carcere, se vogliamo chiamarlo così. Scatta tutte le volte che qualcuno o qualcosa usa la porta tra la Zona di Raccolta di Fedic e la stazione...»
«Credo che il termine che usavate», intervenne asciutto Roland, «non fosse né soprintendente né direttore, ma ki'-dam.»
Dinky rise. «Complimenti.»
«Che cosa vuol dire ki'-dam?» volle sapere Jake, sebbene ne avesse un'idea vaga. Al Calla la gente aveva un modo di dire: «testascatola, cuorescatola, chiamascatola». Che significava in ordine decrescente, intelletto, emozioni e funzioni elementari. Funzioni animali, direbbe qualcuno; a voler essere volgari, chiamascatola potrebbe essere tradotto con cacca-scatola.
Ted si strinse nelle spalle. «Ki'-dam vuol dire uno che pensa con il culo. È così che Dinky chiamava sai Prentiss, il comandante del Devar. Ma questo lo sapevate già, vero?»
«Più o meno», ammise Jake.
Ted lo fissò a lungo e, quand'ebbe identificato quell'espressione, Jake trovò più facile definire il modo in cui Stanley osservava Roland: non da persona impaurita, ma da persona estatica. Jake aveva l'intimo sospetto che Ted stesse ancora meditando sulla sua incredibile somiglianza con un certo Bobby ed era più che sicuro che Ted fosse dotato del tocco. Ma da che cosa era originato il fascino che provava Stanley? Ma forse era lui a esagerare. Forse molto semplicemente Stanley non si era aspettato di vedere un pistolero in carne e ossa.
Ted staccò bruscamente gli occhi da Jake per tornare a guardare Roland. «Ora guardate da questa parte», li invitò.
«Caspita!» proruppe Eddie. «E quello che cosa diavolo è?»
Susannah era insieme sorpresa e divertita. Ted stava indicando loro una scena che le faceva venire in mente I dieci comandamenti, il polpettone biblico di Cecil B. DeMille, specialmente là dove il Mar Rosso aperto da Mosè ricordava in maniera sospetta un budino tagliato a metà e la voce di Dio che usciva dal cespuglio in fiamme somigliava fin troppo a quella di Charles Laughton. Ma era stupefacente lo stesso. Almeno nella prospettiva dei più triti effetti speciali hollywoodiani.
Vedevano un solitario raggio di sole, un'ampia, limpida, fulgida lama di luce, che scendeva obliqua da un'apertura nella coltre gravida delle nuvole. Tagliava l'aria stranamente scura come il fascio di luce di un proiettore e illuminava uno spiazzo che poteva essere a sei miglia circa dalla stazione di Rombo di Tuono. E «sei miglia circa» era quanto di meglio si potesse azzardare, visto che in quel mondo non c'erano più il nord e il sud, non nel senso di affidabili punti cardinali. Ora c'era solo il Sentiero del Vettore.
«Dinky, c'è un binocolo...»
«Nella grotta bassa, giusto?»
«No, l'ultima volta che siamo stati qui l'ho portato su», rispose Ted con deliberata pazienza. «È su quella pila di casse subito oltre l'ingresso. Prendilo, per piacere.»
Eddie registrò solo distrattamente quello scambio di battute. Era troppo incantato (e divertito) da quel singolo e vasto raggio di sole che brillava su un tratto di terreno verde e invitante, improbabile in quel deserto oscuro e sterile quanto... be', quanto doveva apparire il Central Park a dei turisti arrivati per la prima volta a New York dalle campagne.
C'erano edifici che somigliavano a dormitori universitari, ma di quelli belli, però, e altri fabbricati che sembravano vecchie e accoglienti residenze di campagna, ciascuna con un ampio prato antistante. Sul lato esterno della zona illuminata c'era una strada di negozi. La perfetta, piccola America provinciale con la sua Main Street, salvo che per un particolare: in tutte le direzioni era circondata da deserto buio e roccioso. Contò quattro torri di pietra, ornate dal verde dell'edera. No, erano sei. Le ultime due erano quasi completamente nascoste da una macchia di olmi dalle fronde eleganti. Olmi in un deserto!
Dinky riapparve con il binocolo e lo offrì a Roland che scosse la testa.
«Non ti offendere», disse Eddie. «I suoi occhi... be', limitiamoci a dire che sono un po' speciali. A me piacerebbe dare un'occhiata, però.»
«Anche a me», intervenne Susannah.
Eddie le passò il binocolo. «Prima le signore.»
«No, davvero...»
«Smettetela!» s'interpose Ted quasi con stizza. «Il nostro tempo qui è breve, il nostro rischio enorme. Non sprecate l'uno e non aumentate l'altro, per piacere.»
Sebbene contrariata, Susannah evitò di rimbeccarlo. Accettò invece il binocolo, se lo portò agli occhi e regolò le lenti. L'impressione immediata fu quella di osservare veramente un piccolo ma perfetto campus di provincia, che si fondeva meravigliosamente con il borgo accanto. Niente tensioni tra comunità studentesca e comunità locale laggiù, scommetto, pensò. Scommetto che Olmopoli e l'Università dei Frangitori convivono serenamente come il burro d'arachidi e la marmellata, Gianni e Pinotto, mano e guanto. Tutte le volte che sul Saturday Evening Post c'era un racconto di Ray Bradbury, leggeva sempre quello per primo, lei adorava Bradbury, e quello che vedeva in quel momento attraverso le lenti del binocolo le faceva pensare a Greentown, il borgo dell'Illinois uscito dalla fantasia di Bradbury. Un luogo dove gli adulti sedevano in veranda sulle sedie a dondolo a bere limonata e i bambini giocavano a rincorrersi con le torce elettriche nel crepuscolo punteggiato di lucciole delle sere d'estate. E il vicino college? Niente alcolici lì, almeno non in eccesso. Niente spinelli o pasticche o rock and roll. Doveva essere un posto dove le ragazze davano ai ragazzi il bacio della buonanotte con casto ardore e rispettavano il coprifuoco serale in modo che la direttrice del dormitorio non pensasse male di loro. Un posto dove il sole splendeva per tutto il giorno, dove alla radio cantavano Perry Comò e le Andrews Sisters, e nessuno sospettava di vivere in realtà nelle rovine di un mondo che era andato avanti.
No, pensò freddamente. Alcuni di loro lo sanno. È per questo che sono arrivati questi tre ambasciatori.
«Quello è il Devar-Toi», annunciò Roland con distacco.
«Sì», confermò Dinky. «Il buon vecchio Devar-Toi.» Si avvicinò a Roland e indicò una grande costruzione bianca vicino ai dormitori. «Vedi quella casa bianca. Quella è la Casa Crepacuore, dove vivono i can-toi. Ted li chiama uomini bassi. Sono ibridi, in parte umani e in parte taheen. E loro non lo chiamano Devar-Toi, loro lo chiamano Algul Siento, che vuol dire...»
«Cielo blu», lo anticipò Roland e Jake capì come mai tutti gli edifici, a parte le torri di roccia, avevano il tetto di tegole blu. Non era Narnia, quella, era Cielo Blu. Dove certa gente era impegnata a provocare la fine del mondo.
Di tutti i mondi.
6
A guardarlo sembra il luogo più bello dell'universo, almeno dalla caduta dell'Entro-Mondo», commentò Ted. «Non è vero?»
«Molto accogliente, sì», convenne Eddie. Aveva almeno mille domande da fare e un altro migliaio dovevano averne in serbo Suze e Jake, ma non era il momento giusto. Intanto non riusciva a staccare lo sguardo da quell'invitante piccola oasi di poche decine di ettari. L'unica soleggiata macchia di verde in tutta Rombo di Tuono. L'unico posto bello. E perché no? Solo il meglio per i Nostri Amici Frangitori.
Poi, suo malgrado, una domanda gli sfuggì.
«Ted, perché il Re Rosso vuol far crollare la Torre? Tu lo sai?»
Ted gli scoccò una breve occhiata. A Eddie sembrò freddo, per non dire gelido, finché sulle labbra del vecchio non apparve un sorriso. Allora gli si illuminò tutto il volto. E i suoi occhi avevano smesso quell'inquietante andirivieni e questo era un miglioramento decisivo.
«È pazzo», disse Ted. «Matto da legare. Matto come il mitico, povero cavallo. Non ve l'avevo detto?» Poi, prima che Eddie potesse rispondere: «Sì, è proprio bello. Devar-Toi, Grande Prigione, o Algul Siento che dir si voglia, sembra un piccolo paradiso. È un piccolo paradiso».
«Una residenza di gran classe», sottolineò Dinky. Anche Stanley contemplava l'oasi soleggiata con un'espressione di vaga nostalgia.
«La cucina soprattutto», continuò Ted, «e al Gem Theater cambiano il programma del doppio spettacolo due volte alla settimana. E se non hai voglia di andare al cinema, puoi portarti i film a casa in DVD.»
«Cioè?» s'informò Eddie, ma scosse subito la testa. «Non fa niente. Va' avanti.»
Ted si strinse nella spalle come a dire: che cos'altro ti serve?
«Sesso assolutamente galattico, per dirne una», s'intromise Dinky. «È simulato, ma è lo stesso incredibile. Io in una sola settimana l'ho fatto con Marilyn Monroe, Madonna e Nicole Kidman.» Lo disse con una punta di imbarazzato orgoglio. «Avrei potuto farlo con tutte e tre assieme, se avessi voluto. L'unico modo per capire che non sono reali è alitarci direttamente addosso, da vicino. Se lo fai, là dove hai soffiato... è come se scomparisse. Non è un bell'effetto.»
«Alcolici? Droghe?» chiese Eddie.
«Alcol in quantitativi limitati», rispose Ted. «Se ti intendi di enologia, per esempio, avrai da conoscere nuove meraviglie a ogni pasto.»
«Che cos'è l'enologia?» domandò Jake.
«La scienza dello snobismo nella categoria dei vini, zuccherino», spiegò Susannah.
«Se arrivi a Cielo Blu con qualche tipo di vizio», disse Dinky, «te lo fanno passare. Con delicatezza. I pochissimi, uno o due che si erano dimostrati ossi particolarmente duri da questo punto di vista...» I suoi occhi incontrarono per un attimo quelli di Ted, il quale alzò le spalle e annuì. «Sono scomparsi.»
«Per la verità gli uomini bassi non hanno più bisogno di Frangitori», riprese Ted. «Ne hanno abbastanza per portare a termine il lavoro.»
«Quanti?» domandò Roland.
«All'incirca trecento», gli rispose Dinky.
«Trecentosette, per la precisione», puntualizzò Ted. «Sono acquartierati in cinque dormitori, anche se messa così è facile farsi un'idea shagliata. Ciascuno ha la propria suite e indipendenza assoluta nel decidere il grado di intimità da accordare ai colleghi Frangitori.»
«E sapete quello che state facendo?» chiese Susannah.
«Sì. Anche se la maggior parte non sta a rifletterci sopra più che tanto.»
«Non capisco perché non si ribellano.»
«Lei di che quando è, signora?» s'informò Dinky.
«Di che?...» Poi comprese. «1964.»
Dinky sospirò scuotendo la testa. «Dunque lei non sa di Jim Jones e del Tempio del Popolo. È più facile spiegarlo a chi ne è a conoscenza. In questo centro religioso allestito in Guyana da un fanatico di San Francisco ci fu un suicidio collettivo. Quasi mille persone bevvero da una vasca da bagno Kool-Aid avvelenato, mentre lui li guardava dalla veranda di casa sua e raccontava loro storie di sua madre con un megafono.»
Susannah lo fissava con un'espressione di orrore e incredulità, Ted con mal dissimulata impazienza. Ma riteneva evidentemente che ci fosse qualcosa di importante in quella storia, perché rimase in silenzio.
«Quasi mille», ripeté Dinky. «Perché erano confusi e soli e pensavano che Jim Jones fosse loro amico. Perché, questo è il punto, non avevano nulla a cui tornare. È la stessa cosa qui. Se si unissero, i Frangitori potrebbero creare una catapulta mentale con cui scaraventare Prentiss e la Donnola e tutti i taheen e i can-toi in un'altra galassia. Invece non ci siamo che io, Stanley e il superfrangitore che sta nel cuore di tutti noi, l'unico definitivo e ineguagliabile signor Theodore Brautigan di Milford, Connecticut. Harvard, classe del Venti, Filodrammatica, Circolo dei Dibattiti, direttore del Crimson e, ma naturalmente! Phi Beta Kacca.»
«Possiamo fidarci di voi tre?» chiese Roland. Il tono blando era ingannevole, sembrava una di quelle frasi che si dicono per ammazzare il tempo.
«Dovete», rispose Ted. «Non avete nessun altro. Nemmeno noi.»
«Se noi fossimo dalla loro parte», intervenne Dinky, «non vi pare che avremmo qualcosa di meglio da metterci ai piedi di questi mocassini fatti con pezzi di copertoni? A Cielo Blu trovi tutto quello che ti può servire, tranne alcuni articoli di base, cose che normalmente non considereresti indispensabili, ma cose che... be', è più difficile battersela quando non hai di meglio che metterti ai piedi le classiche scarpe da Algul Siento, in poche parole.»
«Io continuo a non crederci», insisté Jake. «Tutta quella gente occupata a infrangere i Vettori, intendo. Senza offesa, ma...»
Dinky si girò verso di lui con i pugni chiusi e un sorriso stretto da un moto di collera. Oy si frappose immediatamente, mostrandogli i denti ringhiando. Dinky non lo notò o comunque lo ignorò. «Sì? Allora sappi una cosa, piccolo. Io mi offendo. Io mi offendo di brutto. Che cosa sai tu di come ci si sente a passare la vita intera stando fuori, a essere sempre lo zimbello di tutti, a essere Carrie a ogni fottuto ballo della scuola?»
«Chi?» chiese Eddie confuso, ma Dinky era partito nella sua filippica e non sentiva più niente.
«Laggiù ci sono tizi che non possono camminare o parlare. C'è una ragazza senza braccia. Alcuni sono idrocefali, che vuol dire che sul collo hanno della zucche che arrivano fino al New Jersey.» Si portò le mani a mezzo metro dalla testa, da una parte e dall'altra, un gesto che tutti presero per un'esagerazione. Avrebbero avuto modo di scoprire che non lo era. «Il povero vecchio Stanley, per esempio, è uno di quelli che non possono parlare.»
Roland lanciò un'occhiata a Stanley, con la sua faccia pallida e ruvida e la sua criniera di riccioli bruni. E il pistolero quasi sorrise. «Io credo sappia parlare», obiettò. «Ricordi il nome di tuo padre, Stanley? Io credo di sì.»
Stanley abbassò la testa e le guance gli si infiammarono, ma invece di sorridere, cominciò a piangere di nuovo. Ma che cosa diamine sta succedendo qui? si domandò Eddie.
Era sconcertato anche Ted. «Sai Deschain, se mi è concesso chiedere...»
«No, no, invoco perdono», lo interruppe Roland. «Attualmente il tuo tempo è breve, come tu stesso hai detto, e tutti noi ce ne rendiamo conto. I Frangitori sanno come vengono nutriti? Con che cosa vengono nutriti per accrescere i loro poteri?»
Ted si sedette pesantemente su un grosso sasso e abbassò lo sguardo sulla scintillante ragnatela di binari. «Cristo», disse. «Ha a che fare con i bambini che portano passando dalla stazione, vero?»
«Sì.»
«Non lo sanno loro e non lo so io», dichiarò allora Ted in quello stesso tono pesante. «Non proprio. Ci danno decine di pillole tutti i giorni. La mattina, a mezzogiorno e la sera. Alcune sono vitamine, altre servono senza dubbio a mantenerci docili. A me è andata bene per essere riuscito a eliminarne un po'. Lo stesso hanno fatto Dinky e Stanley. Solo... perché questa forma di depurazione funzioni, pistolero, è necessario volere che funzioni. Capisci?»
Roland annuì.
«Per molto tempo ho pensato che ci somministrassero anche qualche tipo di... non so... tonificatore cerebrale... ma con tutte quelle pillole è impossibile capire quale possa essere. Quale ci trasformi in cannibali o vampiri o entrambi.» Fece una pausa guardando quell'improbabile raggio di sole. Aprì quindi le braccia. Dinky gli prese una mano e Stanley l'altra.
«Guardate», li esortò Dinky. «Ne vale la pena?»
Ted chiuse gli occhi. Lo stesso fecero gli altri due. Per un momento non ci fu altro da vedere che tre uomini che guardavano il raggio di sole di Cecil B. DeMille sul deserto buio... e stavano veramente guardando, Roland lo sapeva. Anche con gli occhi chiusi.
Il raggio si spense. Per uno spazio forse di dodici secondi il Devar-Toi fu buio come il deserto e la stazione di Rombo di Tuono e i pendii dello Steek-Tete. Poi quell'assurdo bagliore dorato riapparve. Dinky emise un sospiro roco (ma non insoddisfatto) e fece un passo all'indietro staccandosi da Ted. Un momento dopo, Ted lasciò andare Stanley e si rivolse a Roland.
«Siete stati voi?» chiese il pistolero.
«Noi tre assieme», annuì Ted. «Ma soprattutto Stanley. Lui è un sender estremamente potente. Una delle poche cose che atterriscono Prentiss, gli uomini bassi e i taheen, è quando perdono la loro luce artificiale. Accade sempre più spesso, sapete, e non sempre perché siamo noi a sabotare la macchina. È solo che la macchina...» Si strinse nelle spalle. «Si sta esaurendo.»
«Come tutto il resto», aggiunse Eddie.
Ted lo guardò, molto serio in volto. «Ma non abbastanza in fretta. Questi attacchi ai due Vettori rimasti devono finire e al più presto, altrimenti non farà più differenza. Io, Dinky e Stanley vi aiuteremo in ogni modo che ci sarà possibile, a costo di dover uccidere tutti gli altri.»
«Sicuro», fece eco Dinky con un sorriso tetro. «Se ha potuto farlo il reverendo Jim Jones perché non dovremmo riuscirci noi?»
Ted gli rivolse uno sguardo di rimprovero, poi tornò a guardare il ka-tet di Roland. «Forse non si dovrà arrivare a tanto. Ma se così fosse...» Si alzò all'improvviso e afferrò Roland per un braccio. «Siamo cannibali?» chiese e la concitazione gli strozzò la voce facendogliela diventare quasi stridula. «Abbiamo mangiato i bambini che le mantelle verdi portavano qui dalle terre della Frontiera?»
Roland tacque.
Ted si rivolse a Eddie. «Voglio saperlo.»
Eddie non rispose.
«Madame-sai?» chiese allora Ted, guardando la donna appoggiata all'anca di Eddie. «Noi siamo pronti ad aiutarvi. Voi non volete aiutare me rispondendo alla mia domanda?»
«Sapere cambierebbe qualcosa?» ribatté Susannah.
Ted la fissò per un momento ancora, poi si girò verso Jake. «Tu potresti essere il gemello del mio giovane amico», gli disse. «Lo sai, figliolo?»
«No, ma non mi sorprende», rispose Jake. «Così funzionano le cose da queste parti, mi pare d'aver capito. Direi che... ehm... siamo in sintonia.»
«Vuoi dirmi tu quello che voglio sapere? Bobby lo farebbe.»
Per poter mangiare vivo te stesso? pensò Jake. Mangiare te stesso invece che loro?
Scosse la testa. «Io non sono Bobby», dichiarò. «Posso somigliargli quanto vuoi, ma non sono lui.»
Ted sospirò e annuì. «Tutti alleati tra di voi e perché dovrei meravigliarmi? Siete un ka-tet.»
«Dobbiamo andare», intervenne Dinky. «Siamo rimasti qui anche troppo. Non è solo che dobbiamo essere presenti all'appello; io e Stanley dobbiamo anche falsare quel loro fottuto telemetro, e così quando Prentiss e la Donnola controlleranno, penseranno che Teddy B non si è mai mosso. 'Anche Dinky Earnshaw e Stanley Ruiz non si sono mossi, nessun problema da parte di quei ragazzi', diranno.»
«Sì», concordò Ted. «Avete ragione. Ancora cinque minuti?»
Dinky annuì con riluttanza. Il vento portò il suono di una sirena, indebolito dalla lontananza, e i denti del giovane apparvero in un sorriso di sincero divertimento. «Diventano così nervosi quando scende il sole», commentò. «Quando devono affrontare la realtà nuda e cruda che li circonda, che è una specie di versione incasinata dell'inverno nucleare.»
Ted s'infilò per un istante le mani in tasca, si guardò i piedi, poi alzò lo sguardo su Roland. «È tempo che questa... questa grottesca commedia finisca. Noi tre torneremo domani, se tutto va bene. Intanto una quarantina di metri più giù c'è una caverna più grande, dalla parte contraria a quella della stazione di Rombo di Tuono e Algul Siento. C'è da mangiare e ci sono sacchi a pelo e un fornello che funziona a gas propano. C'è una mappa di Algul, molto schematica. Vi ho lasciato anche un registratore e alcuni nastri. Probabilmente non spiegheranno tutto quello che vorreste sapere, ma faranno luce su molti punti rimasti oscuri. Per ora sappiate solo che Cielo Blu non è allettante come sembra. Le torri avvolte nell'edera sono torrette di sorveglianza. Tutt'attorno ci sono tre ordini di reticolato. Se cerchi di uscire da dentro, la prima recinzione ti punge...»
«Come filo spinato», intervenne Dinky.
«La seconda contiene abbastanza corrente da farti svenire», riprese Ted. «E la terza...»
«Credo d'aver intuito», disse Susannah.
«Che cosa mi dici dei Figli di Roderick?» volle sapere Roland. «Hanno qualcosa a che fare con il Devar, perché così ci ha detto uno di loro.»
Susannah guardò Eddie inarcando le sopracciglia. Eddie le rispose con un'espressione che significava: te lo dico dopo. Fu quel tipo di comunicazione non verbale, semplice e perfetta, che viene così naturale alle persone che si amano.
«Ah, quei tonti», disse Dinky, non senza compassione. «Sono... come li chiamano nei vecchi film? Caporali, forse. Hanno un piccolo villaggio a due miglia circa dalla stazione, andando per di là.» Glielo indicò. «Ad Algul fanno lavori di giardinaggio e ce ne saranno forse tre o quattro abbastanza abili da occuparsi di riparazioni di carpenteria, sostituire le assicelle di un tetto o cose del genere. Gli agenti contaminanti che ci sono nell'aria quaggiù agiscono specialmente su quei poveri disgraziati. Invece di foruncoli ed eczemi, per loro gli effetti sono come quelli di un'esposizione alle radiazioni.»
«Spiegami», lo invitò Eddie ricordando il povero Chevin di Chayven: la faccia piagata e la veste zuppa di orina.
«È un folken nomade, il loro», intervenne Ted. «Beduini. Credo che per lo più seguano le rotaie della ferrovia. Sotto la stazione e sotto Algul Siento ci sono delle catacombe. I Rod le conoscono bene. Laggiù c'è da mangiare a tonnellate e due volte alla settimana loro portano del cibo a Devar trascinando delle slitte. Ora mangiamo più che altro quella roba. È ancora commestibile, ma...» Alzò le spalle.
«Tutto va rapidamente alla malora» disse Dinky con un'amarezza che gli era insolita. «Ma come si è detto, il vino è squisito.»
«Se vi chiedessi di portare con voi uno dei Figli di Roderick domani», domandò Roland, «voi potreste farlo?»
Ted e Dinky si scambiarono uno sguardo stupito. Poi guardarono entrambi Stanley. Stanley annuì, si strinse nelle spalle e aprì le mani con i palmi all'ingiù: perché, pistolero?
Roland rimase per un momento assorto nei suoi pensieri. Poi si rivolse a Ted. «Portatene uno a cui sia rimasto mezzo cervello nella testa», spiegò. «Ditegli: 'Dan sur, dan tur, dan Roland, dan Gilead'. Ripetete.»
Ted lo fece senza esitare.
Roland annuì. «Se è ancora recalcitrante, ditegli che è Chevin di Chayven a ordinargli di venire. Parlano in un modo un po' elementare, non è vero?»
«Sì», confermò Dinky. «Ma... non potete permettere a un Rod di venire quassù e vedervi e poi tornarsene giù liberamente. Quelli hanno la bocca in mezzo al corpo e blaterano da una parte e dall'altra.»
«Portatemene uno», ribadì Roland, «e vedremo quel che c'è da vedere. Ho quel che il mio ka-mai Eddie chiama un'intuizione. Voi conoscete il pensiero intuitivo?»
Ted e Dinky annuirono.
«Se funziona, bene. Altrimenti... state pur certi che il Rod che porterete qui non racconterà mai a nessuno ciò che ha visto.»
«Lo uccideresti se la tua intuizione non avesse esito?» chiese Ted.
Roland annuì.
Ted emise una risata triste. «Ma certo. Mi viene in mente quel pezzo in Huckleberry Finn in cui Huck vede un battello a vapore che salta in aria. Corre da Miss Watson e dalla vedova Douglas a portare la notizia e quando una di loro gli chiede se è rimasto ucciso qualcuno, lui, con perfetto aplomb, risponde: 'No, signora, solo un negro'. In questo caso potremmo dire: 'Solo un Rod. Un pistolero aveva un'intuizione, ma era sballata'.»
Roland gli rivolse un sorriso gelido, innaturalmente pieno di denti. Eddie lo aveva già visto in passato ed era contento che non fosse rivolto a lui. «Credevo che sapessi qual era la posta in gioco, sai Ted. Ti ho frainteso?» lo provocò.
Ted resse il suo sguardo per qualche istante, poi abbassò gli occhi. Muoveva la bocca come ruminando.
Frattanto Dinky aveva tenuto un muto conciliabolo con Stanley. «Se volete un Rod», disse ora, «ve ne procureremo uno. Non è così difficile. Il problema potrebbe essere piuttosto quello di arrivare fin qui. Se non...»
Roland attese paziente che il giovane finisse. Poiché non lo fece, gli domandò: «Se non riuscite a tornare, che cosa volete che facciamo?»
Ted alzò le spalle. Il gesto fu un'imitazione così perfetta di quello di Dinky, da apparire comico. «Il meglio che potete», rispose. «Nella grotta inferiore ci sono anche delle armi. Una decina di quelle sfere di fuoco elettriche che chiamano bocce. Delle mitragliatrici che, da alcuni degli uomini bassi, ho sentito chiamare sparasvelto. Sono AR15 dell'esercito degli Stati Uniti. Altre cose ancora che non conosco bene.»
«C'è anche una specie di pistola a raggi, una cosa fantascientifica come si vedono nei film», disse Dinky. «Credo che dovrebbe disintegrare il bersaglio, ma o io sono troppo stupido per farla funzionare come si deve, o la batteria è esaurita.» Si rivolse ansioso all'uomo con i capelli bianchi. «I cinque minuti sono passati, e anche di più. Dobbiamo caricarci in spalla le gambe e filare, Ted. Muoviamoci.»
«Sì. Saremo di ritorno domani, dunque. Forse a quell'ora avrete un piano.»
«Tu non ce l'hai?» lo apostrofò Eddie sorpreso.
«Il mio piano era scappare, giovanotto. Un'idea terribilmente brillante, mi era sembrato all'epoca. Scappai fino alla primavera del 1960. Mi presero e mi riportarono indietro, con un piccolo aiuto da parte della madre del mio giovane amico Bobby. Ma ora dobbiamo proprio...»
«Ancora un minuto, di grazia», lo fermò Roland e si avvicinò a Stanley. Stanley abbassò il capo, ma le sue guance irsute si colorirono di nuovo. E...
Sta tremando, pensò Susannah. Come un animale del bosco che vede il suo primo essere umano.
Stanley dimostrava trentacinque anni circa, ma sarebbe potuto essere più vecchio; la sua pelle aveva quel nitore innaturale che Susannah associava a certi problemi mentali. Ted e Dinky avevano i brufoli, Stanley no. Roland gli posò le mani sugli avambracci e lo guardò con affetto. Per qualche secondo gli occhi del pistolero non incontrarono altro che i folti riccioli bruni sulla testa china di Stanley.
Dinky fece per parlare. Ted lo zittì con un gesto.
«Non vuoi guardarmi in faccia?» domandò Roland. Aveva assunto un tono dolce che raramente Susannah gli aveva sentito. «Non vuoi prima andare, Stanley, figlio di Stanley? Sheemie che fu?»